DOMENICA 5 MARZO 2017 MURI – I manifesti della nostra storia

 

 Khaled’s ladder (fuori programma)

João Inada e Matteo Lonardi, 8min, Usa

Incontrare Picasso (La colomba della pace)

Luciano Emmer, 8min., 2000, Italia

Le catacombe di New York

da TG 2 Gulliver, Gianni Minà, 11min., 1980, Italia

David Alfaro Siqueiros. L’artista e il guerriero

Hector Tajonar, 33min., 1998, Messico

Diego Rivera. L’età dell’acciaio

Shelby  Newhouse, 29min., 1978, USA

Io e … Luciano Lama e un affresco di Ben Shahn

Luciano Emmer e Anna Zanoli, 14min.,  1972, Italia

 

Oggi il muro non è solo un oggetto ma un’immagine emblematica del vissuto quotidiano: il muro separa, eppure fin dall’antichità esso è stato il luogo più adatto ad accogliere allegorie e credenze che hanno unito i popoli. Il XX secolo ha reinterpretato l’antico supporto rendendolo un manifesto utile a dichiarare la protesta dei popoli contro guerre e soprusi.

 

Mai come di questi tempi il muro è di attualità. Ne sono consapevoli due giovani videomaker che hanno filmato la performance di Khaled Jarrar, artista palestinese che ha idealmente collegato i muri di Israele con quello al confine tra Stati Uniti e Messico. In Khaled’s ladder (La scala di Khaled) 2016 l’artista sfonda il muro con una semplice scala che rappresenta insieme lo strumento per superare un ostacolo e la possibilità di vedere oltre. “Gli artisti sono il termometro della nostra società interconnessa e globale – dice Matteo Lonardi, coregista del film e direttore della sezione video di Culturunners, casa di produzione di documentari che organizza e mobilita artisti a livello internazionale – Nei miei documentari e fotoreportage – continua Lonardi – gli artisti assumono un ruolo quasi giornalistico spiegando le realtà politiche e sociali attraverso il loro processo creativo. La creazione di un’opera d’arte diventa dunque l’escamotage narrativo per rivelare una realtà più complessa che va al di là dell’atto artistico e rende chiaro il ruolo politico dell’artista”.

 

Ma il muro è stato ed è tuttora anche un supporto per lanciare un messaggio: un raro documento filmico del 1953, mostra Picasso mentre disegna sul muro della Cappella di Vallauris una colomba di pace oggi scomparsa. Il giovane regista Luciano Emmer realizzò questo work in progress dell’artista in occasione di un documentario per le mostre italiane che di li a poco sarebbero state aperte fra Milano e Roma (Picasso, 1954). Nel 2000, Emmer riedita il film restaurandone i materiali e aggiungendo la propria voce a commento del ricordo speciale di quell’appuntamento. Nasce così Incontrare Picasso (2000), dove il breve estratto proposto, mostra un artista allora inedito in calzoncini corti e petto nudo, che con gesti vigorosi e sicuri sale e scende la scala, mentre schizza una colomba minacciata da un mostro con un tridente intriso di rosso sangue. Dal 1946 al ’55, Picasso soggiornava a Vallauris presso villa Galloise, per approcciare una nuova produzione ceramica con gli esperti artigiani del posto. Nel dopoguerra, l’artista aderiva al Partito Comunista francese e nel controverso clima della guerra di Corea, su memoria di Guernica, propose di realizzare un’altra opera monumentale a testimonianza del suo sostegno al movimento di pace. Mentre Chagall eseguiva le grandi tele del Museo Biblico e Matisse dipingeva la Cappella del Rosario di Vence, dal 1952 al ’54 Picasso realizza due pannelli laici per i laterali della Cappella del Castello di Vallauris, dal titolo la Guerra e la Pace. In questo frangente, nel clima di intesa con Emmer, l’artista decide di abbozzare un disegno sul muro absidale. Il giorno dopo, ignari operai del posto, lo eliminano con una passata di calce.

 

Negli anni Ottanta del XX secolo, iniziava un graduale impoverimento della classe media americana, a seguito del declino di un welfare state prodotto nei due decenni precedenti. Nel 1981, con una vittoria schiacciante, il repubblicano Ronald Reagan conquistava la Casa Bianca, allontanando il democratico Jimmy Carter. Già nella New York di fine anni Settanta, un gruppo di artisti sfidava il ricco ed indifferente establishment che governava il mercato dell’arte, facendo viaggiare le loro creazioni a ritmi frenetici su treni metropolitani. Sono, per la maggior parte, emarginati di colore, giovani fra i 16 e i 25 anni cresciuti nel ghetto del Bronx. Quest’arte di frontiera – come la definiva allora una acuta talent scout, la critica d’arte Francesca Alinovi – ripudiava il gusto patinato e le fredde proposte concettuali delle gallerie alla moda. I futuri graffitisti sono piuttosto analfabeti, hanno mitizzato la Factory underground di Warhol e sono acculturati di immagini televisive; la loro arte è gesto performativo collegato alla musica Hip Hop e alla Street Dance, una gestualità sincopata che libera il represso. Dietro l’immediatezza, l’impatto di colori accesi e contrastanti, l’uso del linguaggio fumettistico, c’era il desiderio di provare l’ebbrezza della fama promessa dalla mitologia dei mass media. E mentre Alinovi cercava di diffondere il graffitismo nel mondo dell’arte e presso il grande pubblico, i giovani newyorkesi erano protagonisti in un raro ed audace reportage, in onda per TG 2 Gulliver nel 1980 (Le catacombe di New York, 1980). A proporlo, non è un critico d’arte, ma un giornalista d’assalto, attento e vivace come Gianni Minà, vicino agli artisti romani che in quegli anni soggiornavano a New York. Non va dimenticato che proprio i due writers, Frederick Brathwaite, detto Fab 5 Freddy (1959) e George Lee Quinones (1960), protagonisti del reportage, erano stati da poco esposti a Roma presso la galleria La Medusa (30 novembre – 31 dicembre, 1979), in una prima internazionale; mai tanta pittura a spruzzo di bomboletta, aveva fin’ora varcato i confini newyorkesi. Lee e Freddy, avevano già dipinto oltre dieci carrozze della metropolitana del Bronx, quando il gallerista romano Claudio Bruni, legge in una rivista del 1979, che Freddy – portavoce del gruppo Fabulous Five – proponeva il suo lavoro di muralista a soli 5 $ a piede quadrato. L’articolo era corredato di un servizio fotografico sul murales di Quinones, realizzato l’anno prima per il cortile della sua vecchia scuola media, impresa che lo renderà noto nella comunità dei writers e che vediamo nel reportage. Minà, entrava nel downtown newyorkese nel momento in cui i graffitisti iniziavano a spiccare il volo e di lì, i nomi di Keith Haring, Jean-Michel Basquiat, Ronnie Cutrone, Kenny Scharf, John Ahearn, James Brown e tanti altri. Nello studio dei giovani artisti, una fuligginosa fabbrica dismessa piena di rottami, Lee dichiara che è quella bruttezza a sprigionare in lui la voglia di creare bellezza. Nel reportage inoltre, Minà va a scoprire i nuovi musicisti icona dell’epoca, la giovanissima Blondie che usa lo sfondo dei murales per i suoi videoclip e il giovane corpulento Big Bank Hank, cantante del terzetto Sugarhill Gang che, in un locale del Bronx, canta la famosissima Rapper’s Delight uscita nel 1979 e che darà il via al rap nel mondo.

 

Fra gli anni Venti e Trenta del XX secolo, i murales rappresentano un vero e proprio rinascimento della pittura messicana; protagonisti, un così detto “triumvirato” di artisti abilissimi nel recupero dell’affresco perché capaci di reinventare l’antica tecnica grazie a nuove tecnologie. Sono Clemente Orozco (1883-1949), Diego Rivera (1886-1957) e Alfaro Siqueiros (1896-1974), uomini di fede marxista, che reinventano i murales come manifesto politico a sostegno del nuovo stato rivoluzionario. Il muralismo messicano, inoltre, unisce elementi arcaici e precolombiani a fonti rinascimentali italiane (Giotto, Michelangelo), modelli alti e modelli popolari per un’arte pubblica sostenuta dalla rivoluzione. Nel 1922, grazie al Ministro dell’Istruzione, fondarono a Città del Messico la Scuola Nazionale Preparatoria, primo laboratorio e cantiere per far crescere l’identità nazionale. Qui Rivera e Siqueiros sono collaboratori nell’arte e nella politica e prima di arrivare in America godono già di fama mondiale, ma il contatto con il mondo capitalistico li tocca profondamente, scoprendo le rispettive contraddizioni. Rivera (Diego Rivera. L’età dell’acciaio, 1978), più anziano di Siqueiros, ha avuto una lunga formazione in Europa, prima di approdare a Parigi (1907-1916), dove frequenta Picasso e Modigliani. A differenza di Siqueiros Rivera è attratto dal mondo delle macchine e della grande industria americana e crede nell’emancipazione dell’uomo attraverso di queste, tanto che nel film un suo stretto collaboratore afferma: “qui, sarebbe diventato capitalista”. Rivera arrivava in America nel 1931, in occasione della personale organizzata dal Moma; in Messico si era dimesso dal Partito Comunista perché le sue grandi imprese pittoriche necessitavano di finanziatori facoltosi, ossia “i capitalisti”, come il partito marchiava i grandi mecenati. Con la moglie, la pittrice Frida Kahlo, rimane fino al 1934 per portare a temine tre imprese in tre diverse città: San Francisco (decora la California School of Fine Arts e il Palazzo della borsa), Detroit e New York. Dall’arrivo, fino al 1934, quando torna in Messico, vivrà un’escalation di contrasti fra ferrei sostenitori e agguerriti avversari anticomunisti. Il noto epilogo di New York, avviene alla corte dei Rockefeller dove grazie alla signora Abby (moglie di John erede della dinastia), figura carismatica da poco fondatrice del Moma (1929), realizza un affresco allegorico per il nuovo Rockefeller Center: L’uomo all’incrocio mostra la scienza e la tecnologia al servizio di agricoltura, industria e medicina. Rivera aveva presentato dei bozzetti, ma in corso d’opera li cambia come accadeva spesso e quando nella saga popolosa del muro appare il ritratto di Lenin Rockefeller paga il compenso dovuto e mette alla porta Rivera coprendo l’opera con una tela. Abby cerca di trasferirlo al Moma, ma non ci riesce e nel febbraio del 1934, il murales è fatto a pezzi e gettato via. Rivera lo ricrea appena tornato a Città del Messico nel Palacio de Bellas Artes sulla base di disegni e fotografie scattate durante i lavori.  Ma il malcontento verso il pittore “troppo rosso” iniziava a Detroit nel 1932 dove l’artista realizza un murales sui muri del giardino interno dell’Institute of Art. Nel film lo vediamo all’opera, in straordinari documenti filmati d’epoca mentre dipinge con pennelli e stende la calce con la cazzuola. George Pierrot (all’epoca direttore dell’ufficio pubblicità Institute of Art), anche autore di un libro sugli affreschi di Detroit, racconta che fu il direttore dell’istituto, lo storico dell’arte tedesco Wilhelm Velentiner, a scegliere Rivera per realizzare l’opera pubblica finanziata dall’amico Edsel Ford. Per Detroit Industry, titolo dell’opera, l’artista aveva trovato ispirazione visitando i reparti macchina della General Motors. Tuttavia, gli operai con volti tristi, le donne nude e le aureole blasfeme, dividono l’opinione pubblica ancora scioccata dalla crisi del ’29. Ma Rivera è sereno, sa bene che tanta “pubblicità” avrebbe portato migliaia di persone a vedere l’opera dello scandalo. Per la realizzazione del murales Rivera adotta la tecnica michelangiolesca dello spolvero; lavora intensamente per otto mesi a ritmi serrati, in modo semplice e veloce, controllando l’essiccatura quotidiana delle singole porzioni di pittura. Inizia la giornata lavorativa a mezzanotte, in tempo utile per preparare calce, pigmenti cromatici e i disegni delle sezioni che realizza di giorno, quando può stendere il colore con luce naturale. Detroit Industry rivela le idee di Rivera nei simboli del socialismo cosparsi nei muri: la lancetta dell’ago della bussola rivolta a Nordest, la stella dell’esercito Russo, un teschio mezza faccia per dire la lotta fra la vita e la morte che incombe su contadini e proletariato. Dopo le polemiche, grazie a Ford, il murale viene preservato ed è tuttora visibile. Nel film alcuni operai del tempo raccontano che il cortile divenne spazio per le prime riunioni di cellule sindacali in quanto l’opera costituiva motivo d’insegnamento.

 

Per la regia di Hector Tajonar, il documentario su Siqueiros (David Alfaro Siqueiros. L’artista e il guerriero, 1997), narra la vicenda di un uomo e artista che impugnò le armi per combattere, anche violentemente, contro chi non la pensasse come lui. Più dogmatico di Rivera, di fede stalinista, dopo aver combattuto nel fronte repubblicano della guerra civile spagnola, Siqueiros passa alla storia per aver diretto nel 1940 un commando per uccidere l’esiliato Lev Trotskij ospite allora di Rivera e la moglie. L’attentato fallì, ma riuscì l’anno successivo lasciando un’ombra nel suo diretto coinvolgimento. Siqueiros, che qui vediamo in bellissime fotografie e filmati d’epoca, lavora con la medesima passione e rabbia con cui affronta la vita, da guerriero appunto. Artista precoce, già a 18 anni entra nell’esercito e partecipa alla rivoluzione messicana. Viaggia fra Spagna e Parigi dove incontra Rivera che lo introduce nell’école delle avanguardie; non manca un viaggio in Italia dove è folgorato dagli affreschi di Giotto e Michelangelo, dai futuristi e dalla Metafisica. Rientrato in patria con Rivera riscopre la cultura preispanica messicana maturando l’idea di un’arte grandiosa, eroica e pubblica. Siqueiros usa l’antica tecnica romana a encausto, integra architettura e pittura, temi religiosi e di impegno politico. Nel 1929, è Segretario Generale del Partito Comunista Messicano, ma viene presto espulso per divergenze e dopo varie vicissitudini, per sfuggire alla sorveglianza del governo, nel 1932 va a lavorare per sei mesi a Los Angeles. Qui conosce e frequenta il giovane Jackson Pollock, coinvolgendo il futuro esordiente della Scuola di New York nell’utilizzo tecnico di pigmenti industriali. È un momento importantissimo per Siqueiros che, consigliato dall’architetto Richard Neutra, sperimenta l’affresco su pareti di cemento armato e, a differenza di Rivera, usa vernici già pronte per automobili, lavora con la pistola a spruzzo e trasporta il disegno sulla parete con lucidi e proiettori fotografici. A Siqueiros tocca la stessa sorte amara di Rivera e dei tre murales realizzati in America, due sono cancellati perché troppo sovversivi. America tropicale, per la facciata del Plaza Art Center, nel quartiere messicano di Los Angeles, è dichiaratamente scandaloso: un indios crocifisso sotto una grande aquila appare un proclama contro l’imperialismo americano. Il murales viene subito coperto e poi lasciato alle intemperie fino al 1987, quando il Getty Institute vara un progetto per salvare l’opera, ma oramai il colore è perduto.

 

Di origini ebraiche, pittore, fotografo e designer, Ben Shahn (1898–1969), si trasferisce con la famiglia dalla Lituania a New York a soli otto anni, dopo che il padre, rivoluzionario antizarista, era stato esiliato in Siberia. Anche oltreoceano, Shahn conosce l’intolleranza razzista, smette di studiare e va a lavorare come litografo, decidendo quindi di diventare artista. Shahn debutta e diventa noto nell’ambiente artistico newyorkese per una lunga serie di quadri, tempere, acquarelli e disegni dedicati a Sacco e Vanzetti ed esposti nel 1932 alla Galleria di Edith Halpert. Da ora in poi, saranno prevalentemente i temi sociali ad ispirare la sua opera. Per la serie Rai Io e …, curata da Anna Zanoli, con regia di Emmer, Luciano Lama e un affresco di Ben Shahn (1972) propone il racconto del noto sindacalista, allora segretario nazionale della CGIL, davanti al famoso murales per il Community Center Roosevelt (New Jersey, 1936-1938). Nel 1933, Shahn aveva lavorato con Rivera al Rockefeller Center, un tirocinio utilissimo alla sua attività di muralista che iniziava con quest’opera e proseguiva intensa fino al 1942. Riconoscente al messicano Shahn aveva anche fatto circolare una petizione tra i lavoratori per opporsi all’abbattimento del famigerato murale. Shahn aveva iniziato a collaborare alle grandi opere di committenza pubblica del New Deal di Roosevelt grazie all’amico fotografo Walker Evans con il quale, nel ’29, condivide lo studio di Manhattan. Nel 1935, grazie alla fotografia sociale di Evans sulla depressione americana, Shahn utilizza la macchina fotografica per documentare l’emarginazione delle campagne e la miseria delle classi subalterne, nell’ambito di un incarico ricevuto dal Farm Security Administration, agenzia del New Deal. Quest’occasione diventa un ricco serbatoio di esperienze visuali che gli permetterà di affondare ulteriormente il suo sguardo critico sulla povertà e rinvigorire il suo stile pittorico già orientato al realismo europeo della Nuova Oggettività di Dix e Grosz. L’edificio del Community Center, scuola dedicata a Roosevelt, era il primo edificio pubblico che rappresentava la rinascita dell’area depressa. Il New Jersey doveva sorgere da un progetto di cooperazione che integrava agricoltura, fabbriche tessili e vendita al dettaglio in un programma di re-insediamento di lavoratori ebrei rimasti disoccupati in seguito alla crisi. Nel 1936, anno in cui Shahn inizia la lavorazione del murales, Albert Einstein, che appare in mezzo a poveri operai, dava alla città il suo sostegno politico e moral mentre Shahn vi si trasferiva a vivere. Shahn progetta la struttura del suo racconto pittorico riferendosi al l’Haggadah di Pesach, un testo sacro ebraico sulla liberazione dalla schiavitù imposta nell’Egitto dei Faraoni. Il murale di circa 14 per 4 metri, è suddiviso in tre aree principali: inizia in Germania e passando per Ellis Island finisce in America. Due donne vestite a lutto stanno accanto a due bare aperte con Sacco e Vanzetti; la narrazione si conclude a destra con un tavolo dove ha luogo la pianificazione della città.

Paola Scremin © Associazione Culturale Silvia Dell’Orso – vietata la riproduzione