DOMENICA 19 MARZO 2017 LA MIA ARMA È UN PENNELLO – In guerra contro la politica negata

Espressionismo

Carlos Vilardebo, 27min., 1979, Francia

Europa dopo la pioggia

Mick Gold, 27min., 1978, Inghilterra

Guernica

Alain Resnais, 14min., 1949, Francia

L’onesto Giovanni

Osvaldo Piccardo, 4min., 1963, Italia

Protesta ribellione sovversione. Fluxus

Heinz-Peter Schwerfel, 20min., 1997, Germania

 

In nome di uguaglianza, democrazia e bellezza, l’artista del Novecento ha ripudiato la guerra con tutte le sue armi, dal pennello, al cinema sino alla performance. Il primo e secondo conflitto mondiale, la guerra fredda, il massacro in Vietnam, hanno mosso schiere di artisti, intellettuali e pensatori che con la loro opera hanno detto no alla negazione della politica.

 

Tra i movimenti artistici d’avanguardia più antimilitaristi del primo Novecento, gli espressionisti tedeschi e i dadaisti di Zurigo (poi Berlino) hanno deplorato la guerra più di ogni altra cosa. Espressionismo (1979), per la seducente regia di Carlos Vilardebo, introduce con suggestivi repertori filmici le contraddizioni tra fine Ottocento e inizio Novecento quando la ricca classe borghese tedesca, cresceva in un ottimismo opportunista nel mezzo di povertà, corruzione, perdita di valori e ideali. La politica imperialista e militare del Kaiser Guglielmo II, assicurava quarant’anni anni di pace durante i quali il progresso tecnologico e scientifico preparava il primo grande conflitto mondiale. Nel 1905, un gruppo di giovani studenti di architettura lanciavano a Dresda il manifesto del Ponte (Die Brücke) capeggiati da Ernst Ludwig Kirchner (1880-1938): sono Fritz Bleyle, Erich Heckel, Karl Schmidt-Rottluf a cui si aggiungeranno, Emile Nolde, Max Pechstein e Otto Müller. Questa gioventù vive la prima grande crisi dell’industria moderna, abita insane metropoli e sente il peso schiacciante dei padri nell’epoca in cui sorge la psicanalisi. Kirchner, pittore della città di Berlino, ispira pellicole future come Metropolis (Fritz Lang, 1926); nell’Autoritratto da soldato, appare senza una mano. Come tanti compagni, partiva volontario in guerra, per essere poi congedato per infermità mentale. Finirà emarginato negli ultimi vent’anni di vita giungendo al suicidio con un colpo di pistola alla tempia. La tragicità dei primi espressionisti tedeschi emerge nei colori violenti e innaturali stesi in materia densa, nei segni incisivi e aggressivi di contorni neri e semplificati, elementi questi che ridefiniscono nuovi canoni  di bellezza. In un’intervista del film lo storico Georges Duby afferma che l’espressissimo, “vivificato” dalla prima guerra mondiale, avvertì tempo prima l’orrore imminente nel dipingere metafore, maschere, corpi deformati e temi biblici. Il gruppo del Ponte, darà inizio a una prima comune di artisti dove era pratica comune il nudismo, l’amore libero e lo scambio delle tele; quando esponevano erano soliti riprodurre in stampe xilografiche opere pittoriche dei compagni. Dopo la nascita del Ponte, Vasilij Kandinsky fondava a Monaco, nel 1911, Il Cavaliere Azzurro (Der Blaue Reiter) con Franz Marc e August Macke future vittime di guerra. La prima corrente astratta della storia dell’arte – il primo acquerello astratto di Kandinsky data 1910 – rifuggiva la realtà esterna per promuovere, attraverso un manifesto ufficiale, lo spirituale nell’arte ossia tele orchestrate con musica, colori ed emozioni che svelavano l’anima dell’artista. Dopo la guerra l’espressionismo troverà terreno fertile nella Germania della Repubblica di Weimar. La Nuova Oggettività (Neue Sachlichkeit) ribadiva la fredda analisi del reale contro la forte emozionalità istintiva del primo espressionismo. Otto Dix, Georg Grosz, Max Beckmann, Käthe Kollwitz e Christian Schad avevano vissuto la guerra di trincea: per questo fecero tacere l’anima in nome di un’oggettività superiore percepita come sospensione di valori. Gli anni Venti del Novecento segnarono la ripresa del capitalismo, il denaro assumeva un ruolo di copertura dell’io che sovrastava e inghiottiva ogni valore vitale. La vittoria del materialismo e l’asfittica degenerazione sessuale prendono vita nei quadri di Grosz attraverso folle di prostitute, magnacci, uomini d’affari, politici, militari, storpi, mendicanti, scene di omicidio e tanto altro. Nel 1933, con l’avvento del nazismo, molti capolavori espressionisti finirono al rogo bollati come “arte degenerata”; Grosz e Beckmann dovranno fuggire in America. Il Nosferatu (1922) di Murnau era diventato realtà.

Mentre gli espressionisti entrati in trincea riportarono i segni nella carne e nell’anima alcuni artisti assolutamente anarchici disertarono la guerra rifugiandosi a Zurigo, luogo neutrale per molti esiliati, fra i quali Lenin. Qui, l’otto febbraio del 1916, Tristan Tzara, lanciava il primo manifesto dadaista.

 

“Dada fu una bomba”, afferma l’artista tedesco Max Ernst, in apertura del documentario Europa dopo la pioggia (1978) e i dada la lanciarono con la stessa freddezza e arroganza con cui la guerra, a quelle date, aveva falciato le vite di ben 700.000 giovani soldati francesi e tedeschi. Il Dadaismo fu una rivolta morale, filosofica e, insieme, un atteggiamento di vita per demolire gli ultimi baluardi ipocriti di una borghesia guerrafondaia. Dada non significa nulla e in nome del nonsense, della casualità e del nichilismo verso qualsiasi credo, gli artisti demolirono ogni parametro estetico e rasero al suolo museo e tradizione. Memori della lezione futurista furono abili strateghi nella comunicazione e per essere al centro della scena utilizzarono non solo riviste, serate, proclami e mostre, ma anche lo scandalo, la censura e i frequenti arresti. A Zurigo, il Dadaismo mette le basi per un credo radicale, antiestetico e iconoclasta e intorno al 1920 la parabola può considerarsi conclusa; malgrado ci fecero molti adepti. Tipico prodotto Dada fu il readymade di Marcel Duchamp, oggetti industriali già fatti e pronti a cui l’artista poneva la firma per esporli sul piedistallo del museo: è il caso dell’orinatoio rovesciato (Fontana, 1917). La prassi artistica, estremizzata in pratiche impersonali, come i quadri meccanici di Francis Picabia (Parade amoureuse, 1917), denotano il rifiuto del capolavoro nella società capitalistica che ha ridotto l’arte a merce. Nel 1919, grazie a all’incontro fra Tzara e André Breton, Dada prendeva vita a Parigi evolvendo successivamente nel Surrealismo. Ma il dadaismo avrà una sua parabola prolifica in Germania (Berlino, Colonia, Hannover, Francoforte) dove dato il clima politico, fra il 1918 e il ’19, gli artisti scatenarono un’ira eversiva, oltraggiosa e irriverente verso il potere. È Il caso dell’umanità graduata e degradata di Grosz o dei collage di Hannah Höch e John Heartfield, un apparente caos di ritagli fra scritte e immagini a premonire il futuro Hitler, scheletri, burocrati, treni, ingranaggi, attori e ballerini. Di notevole rottura, anche gli assembramenti accatastati in sculture dal titolo Merz, di Kurt Schwitters, che nella miseria della gioventù raccoglieva per strada oggetti e rifiuti. Nel film, introdotto da un attore nei panni di Tzara, si susseguono opere d’arte e rarissimi repertori d’epoca fra cui la viva voce di Raoul Hausmann che in una registrazione del 1946 interpreta i phonetic poems (1918). La bizzarra corsa di un corteo funebre per le strade di Parigi, tratto dal manifesto cinematografico dadaista Entr’acte (1924), per la regia di René Clair e sceneggiatura di Picabia, chiude il film.

 

Nel clima di speranze che caratterizza il mondo della cultura europea del dopoguerra il giovane regista francese Alain Resnais girava alcuni film sull’arte, allineandosi al progetto di un’intellighenzia cosmopolita impegnata a contrastare con messaggi di bellezza le passate barbarie. Attratto dai film sull’arte di Emmer (che conoscono la prima fortuna critica in Francia) e ingaggiato dallo stesso produttore Pierre Braunberger, Resnais proponeva una trilogia iniziata con Van Gogh (1948) e Gauguin (1950) e ultimata con Guernica (1950). In un montaggio di diversi elementi Resnais dispone l’opera omonima di Picasso (Guernica, 1937), manifesto contro la guerra con disegni e sculture dell’artista spagnolo, alternati a repertori filmici d’epoca sul bombardamento della città basca. Sperimenta inoltre il valore di un testo poetico, surreale e visionario scritto da Paul Eluard e letto da Maria Casarès e Jacques Pruvost

 

L’onesto Giovanni (1963), prestigiosa animazione firmata Osvaldo Piccardo, mette in scena con una grafica accattivante, di gusto neodada decisamente ironica ed espressiva, l’assurdità di una lotta quasi infantile fra le due super potenze (USA e URSS) durante la guerra fredda. (Vedi scheda approfondimento).  Dopo la ricostruzione gli anni Sessanta del Novecento portarono in Europa un iniziale benessere diffuso (che sfocerà nel boom economico) le cui implicazioni socio politiche vennero svelate dagli artisti stessi, i primi a porsi in maniera critica contro una comunicazione di tivù e stampa ancora asserviti al mito della super potenza americana. I conflitti egemonici non erano cessati, la guerra d’Algeria, ma soprattutto il Vietnam, per la prima volta, mostravano cruente immagini di morte in diretta. L’arte non poteva più combattere con la pittura e tanto meno con l’astrazione, servivano messaggi altri e azioni forti: l’happening ebbe questa missione.

 

Tra fine anni Sessanta e primi Settanta gli artisti tedeschi, riuniti sotto l’etichetta Fluxus, accorparono moltissimi fenomeni distinti ed eterogenei di contestazione al sistema politico. Il movimento esprimeva una creatività estrema e giocosa, priva di norme o manifesti, semplicemente un’arte critica che proponeva idee e beni immateriali, contro l’iperproduttività capitalistica. Protesta ribellione sovversione. Fluxus (1997) di Heinz-Peter Schwerfel racconta attraverso le voci dei protagonisti, nonché rarissimi materiali filmici d’archivio e performance d’artista, quarant’anni di esperienze che toccarono Germania, Francia, Italia, Inghilterra, Svizzera, paesi del nord Europa, fino ad Australia, Asia e America. L’unica cosa che accomunava gli artisti di Fluxus fu un atteggiamento aperto nei confronti dell’arte, la volontà di innovazione e il rispetto reciproco tra loro. Le esperienze Fluxus hanno avuto un’enorme influenza su nuove forme artistiche (Nouveau Réalisme, Arte Concettuale, Arte Povera, Body Art, Poesia concreta, Nuova musica) e negli anni hanno inciso anche su aree allargate della cultura quali pianificazione urbanistica, architettura, design, letteratura, fino all’ecologia, tema cardine dal tedesco guru del gruppo Joseph Beuys. La ricchezza e la complessità che costituiscono Fluxus, il suo essere e significare, sono la fonte del suo interesse e della sua vitalità ancora attuali. Fluxus sorge tra il 1961 e il ’62, il nome sta a significare un fenomeno in continuo mutamento, senza forma né luogo, per questo è definito anche Zen. Lo inventa l’artista lituano George Maciunas che organizza i primi eventi in Germania e a New York. Padri ispiratori Duchamp e il compositore americano John Cage; dadaismo e readymade fanno da catalizzatori. Fluxus inizia proponendo concerti sperimentali e solo successivamente pubblica riviste e organizza festival come quello di Aquisgrana del 1964 qui presente in repertori d’epoca. Fra le testimonianze più suggestive gli happening di Wolf Vostell che, dopo aver distrutto migliaia di televisori, attacca l’automobile simbolo del capitalismo tedesco. Chris Burden in una performance del ’71, titolata Shoot (Spara), si fa sparare a un braccio da un assistente dichiarando poi che il rischio era minimo di fronte alle intense reazioni fisiche e psichiche provate su sé stesso. Tra i flagellatori della carne, allora tribù di Marina Abramovic, oltre a Burden appare Vito Acconci, Gina Pane e l’esponente dell’Azionismo Viennese Günter Brus presente nel film in una performance tra le più violente e simboliche azioni della Body Art, quella dell’automutilazione. Brus utilizza l’autolesionismo e il dolore come protesta contro la repressione culturale che la società austriaca esercita sulle pulsioni dell’individuo. Arrestato due volte per provocazioni contro la pubblica morale è stato anche minacciato di morte.

Paola Scremin © Associazione Culturale Silvia Dell’Orso – vietata la riproduzione