DOMENICA 26 MARZO 2017 ARCHITETTIAMO UN MONDO MIGLIORE – Città ideali, utopia e politica urbanistica

Architettura e repressione

Roberto Schiavone, 13min., 1975, Italia

Il Familistero. Una città radiosa del XIX secolo

Catherine Adda, 26min., 1996, Francia

Il villaggio operaio di Crespi d’Adda

Alessandra Conforti, 18min. 2016, Italia. Regia di Stefano Lorenzi. Estratto da Italia. Viaggio nella Bellezza – prodotto da Rai Cultura in collaborazione con il MiBACT di Eugenio Farioli Vecchioli e Davide Savelli

Sud come nord

Nelo Risi, 18min.,, 1957, Italia

Pasolini e la forma della città

da Io e …,di Anna Zanoli, regia di Paolo Brunatto, 17min., 1974, Italia

 

Urbanisti e architetti, fin dalla metà del XIX secolo, hanno pianificato sistemi per emancipare, o controllare e reprimere, il vissuto quotidiano della gente. Un excursus dal falansterio dei socialisti utopisti francesi ai moderni villaggi di imprenditori italiani, sino alle considerazioni mai così attuali di Pasolini sulla distruzione del paesaggio in nome del facile profitto. 

Architettura e repressione (1975), racconta e ben sintetizza il pensiero filosofico e le teorie sociali che, negli ultimi due secoli, ha interessato lo sviluppo e la progettualità dell’habitat cittadino moderno; il breve film bianco e nero mette in evidenza lo stretto rapporto fra scelte politiche, pianificazione urbanistica e vissuto quotidiano. Negli anni in cui a Roma i principi Borghese pianificavano l’area dei giardini Pinciani con fastose ville classiche, in Francia l’Illuminismo apriva un dibattito filosofico che metteva in discussione i vecchi sistemi feudali in nome di riforme per l’uguaglianza, la libertà e la democrazia. In opposizione a esasperati ritmi lavorativi e alla nuova schiavitù delle macchine, intorno agli anni Trenta dell’Ottocento, il filosofo francese Charles Fourier teorizzò la comunità socialista utopista che trovava piena realizzazione nel falansterio. A Parigi, dopo i moti del 1848, il prefetto Barone Georges Hausmann, incaricato da Napoleone III utilizzò il nuovo piano urbanistico per ridisegnare non solo la città, ma i ceti sociali che abitavano il centro. Con grandi boulevards spaziosi e rettilinei spazzò via sia gli angusti vicoli medioevali funzionali ad alzare barricate, sia il popolo rivoltoso allontanato nelle periferie. Debitore del socialismo di Fourier nel 1917 l’architetto francese Tony Garnier teorizzò la Cité industrielle primo piano urbanistico moderno basato su una progettazione razionale della città organizzata attorno a tre funzioni principali, quelle lavorative, abitative e ricreative, senza tralasciare la centralità dei servizi sociali e del verde pubblico. Garnier inoltre, nella sua carriera di architetto, utilizzò materiali industriali quali cemento armato, ferro e vetro, adottando uno stile spoglio e funzionale alle esigenze dell’edificio. Nel Novecento i regimi totalitari fascisti usarono l’urbanistica e l’architettura a propria immagine; in Italia, l’idealismo crociano che separava la creazione da fattori materiali e sociali limitò lo sviluppo del movimento dell’architettura moderna sorto in Francia con Le Corbusier e in Germania con Walter Gropius, dove trovò terreno fertile fino all’ascesa di Hitler. A Roma, fra le due guerre e in previsione dell’Esposizione Universale del 1942, Mussolini pianificò il quartiere dell’EUR imponendo un’architettura classica monumentale priva di contenuti. Il progetto, presentato nel 1938 dall’architetto Marcello Piacentini, secondo l’ideologia fascista traeva origini dall’urbanistica romana apportando tenui elementi di razionalismo, minoritari rispetto al neoclassicismo semplificato di Piacentini. L’impianto viario del quartiere ad assi ortogonali ospita edifici imponenti, massicci e squadrati, costruiti con marmo bianco e travertino a ricordare i templi della Roma imperiale. Accanto all’Eur – che tuttavia oggi conserva il suo fascino – nel dopoguerra sorsero le periferie lager di agglomerati urbani privi di servizi e spazi comuni a dimostrazione che, ancora una volta, il capitale e il profitto avevano vinto attraverso la propaganda politica.

 

Il documentario, Il Familistero. Una città radiosa del XIX secolo (1996), presenta un approfondimento delle istanze utopiste ottocentesche. Il film racconta un esempio di Falansterio realizzato nel 1859 a Guise da Jean-Baptiste Godin (1817–1888) industriale e uomo politico. Il palazzo sociale ospitò circa 900 persone in un’epoca in cui l’utopia della comune, la città che collegava funzioni abitative, sociali e produttive, era ormai finita. Godin, figlio di un fabbro, sperimentava e brevettava l’uso della ghisa per apparecchi da riscaldamento domestico aprendo nel 1837 a Guise un’industria per la produzione di stufe. Appassionato di teorie sociali entra in contatto con un discepolo di Fourier e finanzia, nel 1854, un primo esperimento fallito di comunità in Texas; nel ’59, collauda lui stesso l’integrazione tra capitale e lavoro nel suo falansterio. A differenza di Fourier l’impresa produttiva di Godin non è agricolo-industriale, ma strettamente industriale, per cui i lavoratori prendono parte alla gestione del capitale con il loro lavoro. Godin disegnò e realizzò tre blocchi di abitazioni comunicanti con cortili che svolgono la funzione delle rues intérieures e delimitano la piazza d’ingresso che, a sua volta, è chiusa a distanza sul quarto lato dal teatro e dalle scuole. Le abitazioni affacciano sui cortili-ballatoio coperti da vetrate e destinati a spettacoli e riunioni collettive. Godin riserva una particolare attenzione ai servizi igienici, al riscaldamento e all’illuminazione. Dal fourierismo l’industriale mantiene due aspetti importanti: l’assistenza sociale molto avanzata (casse pensioni, malattia, medicinali e assicurazione infortuni) e il sistema pedagogico che trasferisce dalla famiglia alla comunità l’educazione dei figli. Varia invece l’utilizzo degli alloggi, non più comuni, ma autonomi, destinati a singole famiglie come nelle future unité d’habitation di Le Corbusier. Dopo il 1882, Godin cede l’industria e il familisterio, nel quale alloggerà sino alla morte, a una cooperativa di gestione creata da lui stesso. Quello di Godin è stato uno degli esperimenti più felice di socialismo applicato nel XIX secolo.

 

Anche in Italia la famiglia Crespi, industriali cotonieri bergamaschi a fine Ottocento, realizzò un moderno Villaggio ideale del lavoro accanto al proprio stabilimento tessile lungo la riva del fiume Adda (Il villaggio operaio di Crespi d’Adda, 2016). Cristoforo Benigno Crespi, nei primi anni ’70 dell’Ottocento, visitò la Scozia per conoscere da vicino le realtà produttive e sociali. All’epoca, aveva sentito parlare di New Lanark, villaggio sede di un cotonificio acquistato nel 1800 dall’imprenditore e sindacalista gallese Robert Owen. Di fede socialista e utopista, ma pragmatico rispetto al filosofo Fourier, Owen migliorava nettamente la qualità della vita degli operai e la produttività dell’azienda eliminando il lavoro minorile, fornendo abitazioni decenti ai lavoratori e alle famiglie, riducendo l’orario di lavoro e instaurando la pausa pranzo. Il villaggio Crespi d’Adda sorse subito dopo, nel 1877, come una vera e propria cittadina autosufficiente costruita dal padrone della fabbrica per i suoi dipendenti e famiglie che disponevano di casa con orto, giardino e servizi necessari. Benigno Crespi ebbe potere assoluto, e come un padre assolse tutti i bisogni dei dipendenti anticipando le tutele dello Stato stesso. Nel villaggio potevano abitare solo i lavoratori del cotonificio e la vita della comunità ruotava attorno alla fabbrica stessa, ai suoi ritmi e alle sue esigenze. Gli architetti, ai quali Crespi commissionò i progetti, erano eccellenze dell’epoca: Angelo Cola, Pietro Brunati, Ernesto Pirovano e Gaetano Moretti lavorarono per un’architettura di rigore, razionalità e funzionalità. Le residenze bifamiliari per gli operai, su modello inglese, vennero allineate in modo da creare tante strade parallele e vennero alternate alle ville stile liberty dei dirigenti. L’architettura dei capannoni industriali, semplice e lineare, fu caratterizzata da finestrelle stellate ad otto punte, che divennero il simbolo dell’impresa. Accanto alla fabbrica, situata sulla riva del fiume, Crespi fece costruire la propria residenza, un castello in stile eclettico medioevale, per simboleggiare il potere dominante della famiglia. In poco tempo, l’azienda ebbe profitti altissimi e i Crespi poterono comprare le più avanzate e innovative macchine tessili d’Europa. Nel 1995, l’Unesco ha accolto il villaggio Crespi d’Adda nella lista del Patrimonio Mondiale Protetto, in quanto esempio eccezionale dei villaggi operai meglio conservati.

 

Sud come Nord (1957), commissionato dalla Olivetti al regista Nelo Risi, racconta la giornata tipo di un operaio nel nuovo stabilimento Olivetti di Pozzuoli. Il successo dell’impresa negli anni ’50 stimolava Adriano Olivetti a tentare un’espansione della base produttiva decentrando il nucleo storico delle officine di Ivrea. La scelta non fu motivata da prospettive di successo personali, ma nasceva dalla precisa idea di comunità dell’imprenditore già sindaco della città e di li a poco anche deputato parlamentare. La fabbrica di Pozzuoli diventò motore dello sviluppo e contribuì in parte al risanamento urbanistico e sociale del territorio confermando la strategia olivettiana di un accrescimento economico che dal nord muoveva verso sud.  Nel documentario Risi mostra, in un montaggio alternato, i problemi sociali di un luogo di atavica povertà e di contro, l’organizzazione razionale della produzione di calcolatrici. Il progetto delle officine di Pozzuoli, affidato nel 1951 all’architetto napoletano Luigi Cosenza, vide l’inaugurazione ufficiale nel ’55. Lo stabilimento, a 15 chilometri da Napoli, domina il golfo coprendo una superficie di 30.000 metri quadrati e al momento della sua apertura accoglieva 1.300 tra operai e impiegati. Cosenza progettò gli edifici assolvendo esigenze produttive, ma anche paesaggistiche, nella scelta di immergere i corpi architettonici nel verde di un paesaggio di grande bellezza naturalistica. Lo studio del colore per gli interni fu affidato a Marcello Nizzoli che, in sintonia con le idee del magnate, lavorò su suggestioni archeologiche dell’area vesuviana per sottolineare una continuità fra le esigenze della società industriale e valori comunitari tradizionali. La fabbrica, inoltre, fu pensata per convogliare all’interno la luce del giorno e creare così, nei saloni di lavoro, un’atmosfera gradevole e calda. Il quartiere abitativo per gli operai sorse a Pozzuoli nei pressi dell’anfiteatro romano in un’area già fornita di servizi. L’iniziativa commissionata da Olivetti venne gestita da INA – casa secondo una prassi già utilizzata a Ivrea nella realizzazione del quartiere per dipendenti di Canton Vesco. Lo stabilimento di Pozzuoli fu un esempio unico in quegli anni di progettazione razionale di una fabbrica movimentata dalla presenza di più corpi alcuni sostenuti da esili colonnati; all’interno, fu provvista di una mensa, una biblioteca, spazi per il riposo e, ovunque, comode sdraio per le ore di intervallo.

 

Per Io e …, nel 1973 viene interpellato Pier Paolo Pasolini a scegliere un tema artistico a lui caro; Pasolini e la forma della città (1974), è un pamphlet cinematografico, come lo ha definito lo studioso del poeta e regista friulano, Roberto Chiesi. Pasolini, stimolato da Anna Zanoli, autrice del film, sceglie di parlare dell’irreversibile degrado del paesaggio italiano, compiendo una lucida analisi sulla cittadina di Orte, luogo mitico issato nel colle della Teverina, deturpato da edilizia abusiva. La regia dell’intervista è affidata al sensibile Paolo Brunatto, già regista Rai e all’epoca anche autore di interessanti film underground .  Anna Zanoli, in evidente e spontanea sintonia con le idee pasoliniane, asseconda e accoglie la presenza fisica e le parole di Pasolini che, come in una docu-fiction, qui si rivolge a Ninetto Davoli. Il film che ne risulta infatti, non è la semplice registrazione di un’intervista perché, come mette in evidenza Chiesi, alcune inquadrature di immagini e sequenze – la presenza fissa del paesaggio naturale, gli edifici antichi, le riprese frontali – corrispondono alle scelte figurative e pittoriche del cinema di Pasolini. Evidente inoltre, come la forma della città, rimuova nel poeta romano un’insofferenza, maturata in questi anni di tour cinematografici nel Terzo Mondo, verso gli sconvolgimenti paesaggistici visti in Persia, nello stato di Aden, in Yemen e nel Nepal. Il breve film, risulta un’ennesima denuncia espressa con rabbia e dolore, sentimenti ricorrenti nella vicenda privata e pubblica dell’intellettuale. Pasolini guarda l’inesorabile trasformazione antropologica e fisica di un territorio antico travolto da una modernità che non riconosce. La centralità degli interessi di Pasolini, rispetto al soggetto qui trattato, è ulteriormente provata dal fatto che nel film sia inserita una sequenza di un altro suo breve film, Le mura di Sana’a (1971), girato poco prima in forma di appello all’Unesco per difendere e salvaguardare le antiche  mura  della  città yemenita. Inoltre, terminata l’esperienza Rai, Pasolini riprendeva il film su Sana’a e lo rimontava inserendovi questa volta una sequenza tratta dal materiale girato e non utilizzato a Orte consegnando così alla storia la versione definitiva. Pasolini chiude il film a Sabaudia, città fondata dal regime nel 1934, per dire come i segni di quella tirannia siano esteriori, avendo il luogo mantenuto l’aspetto provinciale e rustico dell’Italia contadina. Il regista poeta, ancora una volta, trovava un modo per ribadire che la “società dei consumi” era riuscita a controllare e plasmare le masse privandole della bellezza naturale di paesaggi inalienabili, meglio del regime fascista capace solo di dominare tirannicamente. Allontanandosi verso il mare, nell’ultima inquadratura, Pasolini appare privo di speranza.

Paola Scremin © Associazione Culturale Silvia Dell’Orso – vietata la riproduzione