Italiani oltreoceano

Artisti, architetti, designer e la scoperta dell’America

Domenica 20 marzo 2016 | h. 16.30

Oficina Bo Bardi

(26’), Italia, 2006, di Silvia Davoli, Francisca Parrino, Andrea Balossi Restelli, (© e gentile concessione)

Sonambient

(15’), Italia, 1971, di Jeffrey Eger, © e gentile concessione di Harry Bertoia Foundation | www.harrybertoia.org

e Amici di Harry Bertoia | www.arietobertoia.org

Massimo Vignelli

(9’ 30’’), Usa, 2012, di Letizia Airos / i-Italy  (© e gentile concessione)

 Paolo Soleri. Una città per salvare l’uomo

(30’), Italia, 2012, di Giosuè Boetto Cohen (© e gentile concessione)

 

Italiani oltreoceano. Artisti, architetti, designer e la scoperta dell’America, è una giornata dedicata a personalità del mondo della cultura italiana che sono andati oltre le colonne d’Ercole per trovare la chiave adatta a far sì che i sogni non rimangano utopie. Sono artisti che spesso sono fuggiti dal provincialismo di un paese troppo stretto, addetti a lavori molto specializzati e creativi che hanno portato con sé l’Italia nella loro formazione classica, nel gusto e nella genialità, caratteristiche che le Americhe hanno riconosciuto. Quattro documentari raccontano la vicenda artistica e umana di emigranti molto speciali.

 

L’influenza italiana nel campo dell’arte brasiliana è sempre stata considerevole, fin dagli anni della sua scoperta nel XVI secolo. Nell’800, l’abolizione della schiavitù segnò l’avvio di una politica programmata di apertura alla manodopera straniera da parte del Governo Imperiale; inizia un vasto ciclo migratorio di italiani, prevalentemente lombardi, piemontesi e veneti, che trovano lavoro nelle fazendas. Solo negli anni del secondo dopoguerra, iniziò una nuova corrente emigratoria composta prevalentemente da professionisti qualificati. Tra questi l’architetto di origine romana, naturalizzata brasiliana (nel 1953, sceglie quella nazionalità) Lina Bo Bardi (1914-1992), sulla quale le vive voci dei suoi più stretti collaboratori ed estimatori (Mario Cravo, Calasans Neto, Sante Scaldaferri, Maria Muniz e altri), sono state raccolte nel film reportage di Davoli, Parrino e Restelli, Oficina Bo Bardi (2006). Dona Lina, come fu chiamata dai suoi ammiratori, prima di arrivare in Brasile nel 1939, laureata in architettura, si trasferisce a Milano, per collaborare con Giò Ponti a Domus. Qui sposa l’architetto Pietro Maria Bardi con il quale va per la prima volta in Brasile nel ’46, quando il marito è invitato a dirigere il Museo d’Arte di San Paolo. Sempre a San Paolo, fra il 1957 e il ’68, progetta il futuro Museo d’Arte di San Paolo (MASP), oggi icona della città. Frutto anche delle radici moderniste europee dell’autrice, la storia del MASP, passa attraverso le esperienze che l’architetto compirà a Salvador de Bahia, dove si trasferisce nel ’58, per portare a termine un numero importante di allestimenti, attività che trova fine nel ’64, quando inizia la dittatura.

Salvador viveva allora un momento di grande effervescenza culturale che Dona Lina accoglie evolvendo la sua visione in parte ancora europea: è qui infatti che incontra l’Africa, l’anima negra del continente e contemporaneamente, inizia a lavorare sull’idea ibrida di “arte popolare”. Il suo non è un approccio romantico e folkloristico all’oggetto, l’architetto qui trova basi solide per “semplificare”, “unire” e divulgare informazioni su un gusto del moderno aperto a nuove esperienze. È il caso del Museo di Arte Moderna di Bahia (1959-64), incontro fra tradizione e attualità, fra disegno industriale e cultura del posto. Da architetto e direttrice del Museo, affascinata dal Nordest, Lina concepisce insieme allo scultore Mario Cravo il Centro de Estudo do Trabalho Artesanal (CETA), il cui obiettivo è la creazione di un vero e proprio design industriale brasiliano. Per far questo, organizza una raccolta scientifica di materiali artigianali bahiani, con l’obiettivo di creare dei laboratori, le Oficinas do Unhão, in cui artigiani e giovani designer possono incontrarsi e collaborare. Il progetto non si realizzò mai, ma Dona Lina aveva gettato un seme.

Dopo il golpe militare, l’architetto torna a lavorare a San Paolo, organizzando mostre e iniziative come vere proprie azioni politiche, al limite della denuncia sociale. Bo Bardi è convinta che la funzione dell’architetto debba, prima di tutto, essere quella di conoscere il sistema di vita della gente nelle proprie case e quindi, di risolvere attraverso la tecnologia e la cultura le difficoltà che complicano la vita di migliaia di persone. Terminata la dittatura nel 1985, Lina porta a compimento l’opera più straordinaria della propria carriera, il SESC Pompéia (1977-1986), dove trasforma il sito di un’industria tedesca dismessa di fine anni Trenta, in luogo di cultura, socialità e sport insieme. Opera di straordinaria forza espressiva dove architettura povera ed evento diventano ingredienti di un mix cosmopolita; è questo un altro pezzo di testamento che ci ha lasciato questo architetto geniale, designer di cose, animali fantastici, pensatrice, grafica e scenografa raffinatissima.

Scultore, designer, grafico e anche musicista di origine friulana, la sensibilità eclettica di Arieto Bertoia (1915-1978), naturalizzato americano Harry, passa attraverso una continua evoluzione che vede la natura, lo spazio, il movimento e il suono protagonisti (Sonambient, 1971). Sicuramente la memoria dei suoi paesaggi rurali dell’infanzia ha trovato risonanze nella grandiosità della terra americana che vede per la prima volta a 15 anni, nel 1935. Il documentario proposto è un film raro concepito dall’artista stesso, che qui racconta pochi ma significativi aneddoti. Bertoia nasce in una famiglia non agiata, fin da giovane dimostra grande abilità tecnica ed artistica, tanto che decide di seguire il padre e il fratello a Detroit, dove vivendo con pochi dollari a settimana, grazie a una borsa di studio, prende un diploma di scuola tecnica che gli permette di entrare subito in accademia. La Cranbrook Academy of Art, che già godeva di grande prestigio, fu negli anni Trenta e Quaranta una delle fucine di artisti e architetti di grande talento.

Per Bertoia sono anni significativi, sia per ragioni personali (incontra la futura moglie che sposa nel 1943), sia per gli scambi culturali con maestri architetti come Eliel Saarinen, padre di Eero e futuri designer, come Charles Eames. Saarinen rivoluzionava la scuola nell’ottica della Bauhaus tedesca, rimpiazzando le materie teoriche con corsi di studio e pratica; agli studenti era concessa grande libertà per sviluppare il personale temperamento artistico. Sebbene fosse stato ammesso come uno studente di pittura, Bertoia focalizzò le sue energie nello studio della lavorazione dei metalli, sperimentando nuove tecniche, producendo oggetti e coinvolgendo gli studenti, fino a che Saarinen gli affidò lo status di insegnante. Harry creò gioielleria astratta, spille, in argento e ottone, desiderate e acquistate dalle signore di Detroit. Nell’accademia, scoprì anche il laboratorio di stampa, trascorrendo intere nottate a sperimentare tecniche con la stessa passione con cui studiò il metallo. Bertoia disegnava guardando i lavori di Kandinsky e Klee posseduti dal padre della novella moglie, Brigitta.

Il successo arrivò presto; nel 1943 vendette alcune stampe al Guggenheim Museum of Non-objective Painting (New York). Quando il paese entra in guerra e le difficoltà di reperimento del metallo costringono la scuola a sospendere le attività dei laboratori, Bertoia accetta la proposta della coppia Ray e Charles Eames, di unirsi nella progettazione di design. Harry e Brigitta si trasferiscono in California, approfondirono la tecnica della saldatura per una sedia che, nel 1946 finisce esposto al MoMA come “Sedia Eames”. Deluso dall’estromissione, Bertoia continua a produrre grafica e inizia ora a lavorare sulla sua scultura metallica astratta; di lì a poco, nel 1950, i coniugi Hans e Florence Knoll, ex compagni della Cranbrook, ingaggiano Bertoia per disegnare una linea di mobili. L’artista accetta e si trasferisce con la famiglia nella parte orientale della Pennsylvania dove si trovava la fabbrica e dove acquisterà la casa della vita, una fattoria del ‘700 con terreni circostanti. Nasce così la Diamond Chair (1952), sedia leggera, resistente, elegante, flessibile d’uso, tutta in filo metallico, esposta negli showroom Knoll assieme alle sue piccole sculture. Il successo fu enorme ma Bertoia sentiva che il suo lavoro lo portava verso qualcos’altro: aveva iniziato a pensare quasi totalmente alla scultura. Lasciò la Knoll, pur rimanendo in rapporti d’amicizia con Hans. Le prime commissioni per sculture in grande scala gli vengono da Eero Saarinen: schermi divisori per sale da pranzo (General Motors Technical Center, Michigan, 1953), aeroporti, chiese.

Bertoia vive un momento di grande impegno produttivo mentre prepara mostre per importanti gallerie (New York, Chicago Buenos Aires, Amsterdam, Zurigo, Milano, Roma) e per i negozi Knoll sparsi per il mondo. Negli anni ’60 prende vita un altro progetto che diventerà quasi un’ossessione: catturare i suoni che scaturivano dalle sue sculture. Aste verticali saldate in fila su una base piatta, di lunghezza e diametro variabili, emanano suoni diversi e misteriosi anche a seconda del metallo usato. Clifford West, ancora un amico della Cranbrook, realizza un film sulle sculture sonanti (Harry Bertoia’s Sculpture, 1965) a cui segui Sonambient di Jeffrey Eger , interamente concepito con musiche di Bertoia, realizzato con il fratello Oreste nel fienile di casa restaurato a laboratorio. Dal 1970, aveva iniziato le registrazioni dei suoni, raccolte in una collana di undici LP (Sonambient, 1972). Questo “programma musicale”, come lo aveva chiamato, continuò a occupare gran parte del suo tempo durante gli ultimi anni di vita.

Sul designer Massimo Vignelli (1931-2014), una breve ma efficace intervista (Massimo Vignelli, 2012) riassume la visione globale di una lunghissima e variegata carriera professionale, sempre sostenuta dalla moglie Lella anche lei architetto. La coppia, è l’espressione chiara e determinante di quello che tutt’oggi è l’Italian Style, un capitolo distinto della cultura Modernista anni Cinquanta, che si è definito per la sua peculiare creatività. Nell’atto creativo di Massimo, Lella era considerata l’occhio critico, la coscienza profonda. Massimo Vignelli laureato in architettura tra il Politecnico di Milano e la facoltà di Venezia nel 1957 sposa Lella e si trasferisce momentaneamente negli Stati Uniti grazie a una proposta di lavoro. Dal Massachusetts a Chicago dove conosce Mies van der Rohe.

L’avventura americana si interrompe provvisoriamente nel 1960 quando, per scadenza del visto, è costretto a rientrare in Italia dove riceve incarichi da compagnie importanti (Olivetti, Pirelli, Xerox, Sansoni). Furono questi gli anni nei quali il suo personale approccio al design iniziò a manifestarsi; con Lella apre a Milano il suo primo studio, ma la scena stretta e provinciale li riporta nel 1964 a New York. Qui avviano il progetto di uno studio internazionale, Unimark International, che diverrà realtà accogliendo soci di prestigio (Ralph Eckerstrom, Bob Noorda, Jay Doblin, James Fogelman, Wally Gutches, Larry Klein) con sedi sparpagliatre nel mondo (Chicago, New York, Denver, Cleveland, Detroit, San Francisco, Milano, Londra, Copenhagen, Johannesburg e Melbourne). Vignelli si occupa di coordinare le linee guida di un linguaggio omogeneo fino a che, nel ’71, con Lella, fonda a New York la Vignelli Associates.

Vignelli ha sempre concepito il lavoro del designer una missione culturale vitale con l’obiettivo di fornire non quello che la gente vuole, ma quello di cui la gente ha bisogno. Per Vignelli la libertà di fare ha senso solo nel rispetto collettivo e il melting pot di New York diventa stimolante proprio nel dover tener conto con una serie di fattori che comunicano a una società plurietnica. I Vignelli hanno curato l’immagine di svariate e importanti aziende mondiali, dagli USA all’Europa, dal Sud America al Giappone (American Airlines, Benetton, Ford, Knoll, Ducati) con progetti di ogni tipo, dai libri al packaging fino all’identità visuale di un’intera compagnia ferroviaria inglese e la segnaletica per le ferrovie Italiane. Nel 1989 ha curato l’immagine del TG2 della Rai, dal logo all’arredo degli studi. I loro successi e riconoscimenti nazionali e internazionali si sono succeduti per oltre 40 anni.

Paolo Soleri. Una città per salvare l’uomo (2012), è un documentario su e con Paolo Soleri (1919-2013) architetto, scrittore, scultore, urbanista e artista italiano, qui visibile in una lunga intervista da anziano e in repertori d’epoca molto efficaci. Soleri si laurea in architettura al Politecnico di Torino nel 1946 e si trasferisce subito dopo negli Stati Uniti dove lavora nello studio di Frank Lloyd Wright a Taliesin West. Lascia il posto dopo soli due anni, causa le sostanziali divergenze con le concezioni urbanistiche dell’anziano maestro, in linea con la visione organica dell’architettura, ma troppo rigide nel trattare la complessità dei tessuti sociali come sistemi chiusi, non reali, ma ideali.

Tornato in Italia nel 1950, progetta una delle sue poche e concrete realizzazioni, la fabbrica di ceramiche Solimene a Vietri sul Mare in cui, oltre agli influssi della tematica wrightiana, sono evidenti le componenti formali di Gaudí. Nel 1956, Soleri si trasferisce con la famiglia in Arizona (Scottsdale) dove fonda prima la Cosanti Foundation alla quale segue nel 1970 Arcosanti, un prototipo di città perfetta per 5.000 persone basata sui suoi concetti di arcologia. Con questo neologismo, la nuova disciplina che unisce architettura ed ecologia, parte dal presupposto della limitatezza di risorse ed energia per vivere per cui ogni progettazione deve tener conto del minimo sfruttando ambientale. Soleri ha proposto più un modello di vita globale che un semplice modello estetico, un connubio che lo annovera nei confini dei grandi sognatori dell’architettura contemporanea.

L’artista, che divideva il suo tempo tra Cosanti e Arcosanti, ha scritto sei libri, numerosi articoli e monografie. Ha vinto numerosi premi di architettura: nel 2000 il Leone d’Oro alla Mostra Internazionale di Architettura di Venezia e nel 2006, è stato premiato da Milton Glaser, con il Cooper Hewitt Award, presso lo Smithsonian Institution di New York per aver contribuito profondamente ai migliori concetti di progettazione contemporanei.

[Paola Scremin]