DOMENICA 12 MARZO 2017 LA RESISTENZA È L’IDEALE – Immagini del popolo rivoluzionario

Delacroix. La libertà che guida il popolo (1830)

Alain Jaubert, 15min., 1989, Francia

Majakovskij e il suo tempo

Luigi Perelli, 20min., 1973, Italia

Lucania dentro di noi (Carlo Levi)

Libero Bizzarri, 13min., 1967, Italia

Cose concrete. Renato Guttuso

da Un’ora con., Alfredo di Laura, 21min., 1974, Italia

Le facce buffe

Ernesto G. Laura, 19min., 1971, Italia

 

Icone della storia dell’arte e dell’immaginario collettivo, artisti e uomini che hanno fatto della loro vita un’opera d’arte a favore di un ideale. La prima barricata francese di Delacroix, il tragico epilogo di Majakovskij cantore della rivoluzione russa, gli anni della resistenza italiana di Levi e Guttuso, sino alla satira che da sempre irride al potere del più forte.

 

La Libertà che guida il popolo, grande tela del 1830, oggi al Museo del Louvre, fu realizzata dal capofila del Romanticismo francese Eugène Delacroix (1798-1863) per ricordare la lotta dei parigini contro la politica reazionaria di Re Carlo X di Francia. Giulio Carlo Argan parlò di “primo quadro politico della storia della pittura moderna”. Il documentario Delacroix. La Libertà che guida il popolo (1989) racconta le vicende dell’opera controversa prima di diventare un’icona della storia dell’arte. Dopo una lunga crisi ministeriale e parlamentare, il 25 luglio 1830, Carlo X, monarca assolutista succeduto al Congresso di Vienna, con un colpo di stato sospende la libertà di stampa scatenando la rivolta del popolo. Il 27, 28 e 29 luglio, nei cosiddetti tre giorni gloriosi, compaiono nelle strade le prime barricate per affrontare un esercito sanguinario che miete oltre mille vittime. Re e famiglia abbandonano Parigi mentre i deputati liberali che controllano la rivolta instaurano una monarchia costituzionale con una bandiera popolare tricolore come quella sventolata dalla libertà al centro del quadro, e che riappare sullo sfondo sopra Notre Dame. Delacroix era un dandy, figlio dell’alta borghesia e per tutta la vita beneficiò dei favori provenienti dai salotti parigini anche perché era figlio di  Charles Maurice de Talleyrand futuro ministro degli Esteri e amico intimo di famiglia nonché sostenitore della carriera del pittore in tempi non facili per gli artisti. Delacroix non prese parte alla rivoluzione, ma rappresentò un’indimenticabile immagine dei parigini, sollevati in armi e marcianti uniti sotto la bandiera rossa, bianca e blu. L’iconografia della donna, ispirata dalla greca Vittoria di Samotracia e illuminata in maniera teatrale sotto l’occhio di bue, all’epoca fu considerata scandalosa: gli abiti contemporanei, i seni sporchi e scoperti, i peli sotto le ascelle e il berretto frigio, simbolo della rivoluzione e poi, il popolo-plebe nei due bimbi, nello studente rivoluzionario e nel popolano in primo piano, erano decisamente “troppo incendiari”. Lo Stato di Lussemburgo acquistò comunque il dipinto, ma alcuni funzionari fecero notare che il quadro era troppo “realista”, per cui venne vietata l’esposizione al pubblico. Dopo la rivoluzione del 1848, che portò alla fine del regno di Luigi Filippo, La Libertà che guida il popolo sarà finalmente esposto dal neo-eletto presidente Luigi Napoleone, all’Esposizione Universale del 1855. Leggenda vuole che il ragazzo con in mano le pistole, abbia ispirato Victor Hugo nel personaggio di Gavroche per I miserabili (1862).

Majakovskij e il suo tempo (1973), racconta la vita del noto artista russo, cantore della rivoluzione d’ottobre e interprete della cultura post-rivoluzionaria. Figura carismatica e poliedrica, Vladimir Majakovskij (1893–1930), fu poeta, scrittore, drammaturgo, ma anche regista, attore e giornalista. Di famiglia nobile, presto orfano di padre, ebbe un’infanzia ribelle; trasferito a Mosca a tredici anni durante il ginnasio aderisce al Partito Operaio Socialdemocratico per il quale è arrestato tre volte dalla polizia zarista. In carcere inizia a scrivere poesie. All’Accademia d’arte di Mosca conosce un gruppo di giovani intellettuali con i quali partecipa al Cubofuturismo russo, firmando il manifesto Schiaffo al gusto del pubblico (1912). Il suo impegno nello scuotere il popolo, celebrare movimenti operai protagonisti del nuovo corso storico e ad esaltarne eroiche imprese rivoluzionarie iniziava dal sovvertimento del lessico, dalla parola spregiudicata e colorita di espressioni popolari. Majakovskij fu ispirato dai futuristi russi e italiani che già avevano bruciato le formule poetiche del passato ribadendo l’assoluta libertà nell’uso di caratteri tipografici, formati di stampa e impaginazioni. Nel 1913 il poeta pubblica “Io”, prima raccolta di versi in trecento copie corredate di litografie, che nel dicembre dello stesso anno, va in scena a Pietroburgo; nell’occasione Majakovskij lancia la famosa equazione “futurismo = rivoluzione”. Dopo la rivoluzione, dal ’19 al ’23 lavora alla Rosta, giornale illustrato per il quale realizza una serie di manifesti propagandistici sui principali avvenimenti politici; subito dopo fonda e dirige la rivista Lef, (Fronte di Sinistra delle Arti) a cui fanno capo gli spiriti più innovatori dell’arte e della cultura russa (Aleksandr Rodčenko, Sergej Ėjzenštejn, Dziga Vertov, Boris Pasternak, ecc …). Nel mentre scrive sceneggiature e interpreta alcune pellicole, presenti nel documentario in rare sequenze (La signorina e il teppista, 1918). Nel 1925, Majakovskij viaggia per circa sei mesi, passa a Parigi dove incontra Marinetti e, con lui, approda a Cuba, in Messico e a New York; l’intento è diffondere ed esportare la rivoluzione. Lo accompagnava Lilja Brik grande amore nella vita e nell’arte. Poco dopo il rientro in Russia l’involuzione politica preannunciata con l’avvento di Stalin e l’eccessivo controllo della cultura da parte degli apparati ufficiali inducono Majakovskij al suicidio.

 

Nell’Italia di fine anni Trenta il sentimento antifascista coinvolge e spinge  moltissimi intellettuali, di età ed estrazioni diverse, a schierarsi nella lotta partigiana. Le figure emblematiche di due grandi pittori quali Carlo Levi (1902-1975) e Renato Guttuso (1911-1987) si intrecciano nelle biografie e negli intenti artistici dell’epoca. Lucania dentro di noi (1967) restituisce uno spaccato antropologico della Basilicata a fine anni Sessanta, un luogo quasi  immutato rispetto a quel 1935 quando Levi, arrestato e mandato al confino per sospetta attività antifascista, vi trascorre quasi un anno. Di origine ebraica Levi era laureato in medicina, ma non esercitò per dedicarsi alle sue grandi passioni: pittura, scrittura e politica. Grazie allo zio Claudio Treves, onorevole del partito socialista, conosce Piero Gobetti, gravita attorno a Rivoluzione liberale e partecipa al movimento pittorico antiaccademico I sei pittori di Torino, capeggiato da Felice Casorati. Trascorsi vari periodi a Parigi, diventa militante del movimento antifascista Giustizia e Libertà; tornato in patria e identificato come dissidente è incarcerato e poi confinato nel piccolo paesino di Aliano. Qui, la sua pittura evolve dalle istanze liriche ed espressionistiche verso un realismo esistenziale emotivamente partecipe alla realtà circostante. Il giovane intellettuale in Basilicata conosce un mondo del tutto nuovo che, di lì a poco, racconterà nel noto romanzo autobiografico Cristo si è fermato ad Eboli (1943-1945). Confinato tra i confinati per ragioni diversissime Levi prova ad alleviare le dure condizioni di vita della gente del posto; diventa dottore di fiducia e stringe forti legami amicali. Ora capisce profondamente le ragioni autentiche della questione meridionale fatta di assenza totale dello Stato e potere clientelare di una piccola borghesia sfruttatrice della classe contadina. Il degrado e l’arretratezza socio-economica del Meridione Levi lo restituisce nella pittura di corpi, uomini, donne e bambini che evocano molto più di quanto mostrino: sono ritratti immobili, occhi fissi e mai spenti perché pieni di mistero quasi primordiale. Il regista Libero Bizzarri, proveniente dagli insegnamenti dell’antropologo De Martino mostra una Lucania, oltre trent’anni dopo, ancora fuori dalla storia e per questo alterna ai quadri di Levi, paesaggi e persone del posto. Inoltre Lucania dentro di noi, vede all’opera uno speciale direttore di fotografia, il regista Mario Carbone che, nella primavera del 1960, realizzava un reportage di circa 400 scatti su Levi in viaggio nei luoghi in cui aveva vissuto tra il 1935 e il ’36. L’occasione arrivò con una mostra a Torino in occasione del Centenario dell’Unità d’Italia; allora Mario Soldati chiese a Levi di realizzare Lucania 61, un grande telero che vediamo nel film. Il documentario infine, presenta una rara sequenza con l’artista mentre disegna nel suo studio.

 

Stesso impegno politico, assonanze poetiche e similitudini di linguaggi, torna nell’opera giovanile di Guttuso (Cose concrete: Renato Guttuso, 1974). Trasferito a Roma, negli anni Trenta, il pittore partecipa al gruppo antifascista di Corrente e nel ’37 aderisce alla Scuola romana di Scipione e Mafai avversa al ritorno all’ordine dei novecentisti. In questi anni un eterogeneo gruppo artistico stretto da importanti relazioni di attivismo politico raccoglie i giovani esordienti Guttuso, Levi, Corrado Cagli, Alberto Ziveri, Fausto Pirandello, Mirko, Afro Basaldella e altri attorno alla Galleria Cometa della contessa Mimi Pecci Blunt. Qui, nel ’37, appena tornato da Aliano, Levi esponeva le sue tele mentre nel ’38 Guttuso teneva la sua prima personale. L’artista siciliano iniziava ora a dipingere la Fucilazione in campagna per denunciare l’uccisione del poeta Federico Garcìa Lorca prendendo spunto dallo schema compositivo di 3 Maggio di Goya. L’opera sarà esposta nel 1940 assieme a Fuga dall’Etna con la quale arriva terzo al Premio Bergamo. Nella composizione di questo suo primo dipinto epico-popolare Guttuso medita il passaggio dalla figura unica e in posa all’assembramento di una folla in azione per denunciare la fine del privato e l’approdo al pubblico. All’esordio degli anni Quaranta Guttuso immette nella pittura una radicale concretezza fisica di oggetti e figure, come è chiaro nell’emblematica Crocifissione (1940-41) che arriva seconda, nel ’42, al premio Bergamo. Ma la mostra darà fuoco alle polveri scatenando la chiesa cattolica per bocca del vescovo della città e a cui farà eco il fascista Ugo Ojetti dalle colonne del Corriere della Sera chiedendo la chiusura del Premio. Nell’intervista a Guttuso di Alfredo di Laura l’artista racconta il travagliato esordio: la Crocifissione costituiva il manifesto di una profonda percezione di crisi, di un’inquietudine esistenziale sempre più forte nella odiosa realtà della guerra. Opera preceduta da una serie di studi in uno dei quali il viso dei carnefici aveva baffetti e ciuffo di Hitler. Guttuso legava il supplizio all’attualità; come Sartre e poi Bacon pensava all’inferno contenuto dentro a una stanza dove, in primo piano, esce dalla tela una natura morta con oggetti di tortura, chiodi e una ciotola di sangue. E poi la sconvolgente nudità della Maddalena abbracciata al corpo crocifisso, il drappo rosso sul cavallo che insieme ai pugni chiusi del Cristo e del ladrone buono sono segni inequivocabili di scelte politiche. Il pittore siciliano parla di “pittura come fatto che diventa azione in opere dove le metafore di teschi e bucrani erano l’unico mezzo possibile di espressione per giovani che vivevano “sotto le armi” e “senza passaporto”, ma,  soprattutto, tenuti nell’ignoranza della cultura europea. Durante la resistenza feroce e spietata Guttuso racconta che lavorava la sera con inchiostri tipografici perché non aveva altro modo, riferendosi a un episodio che darà vita a una serie di opere dal titolo Gott mit Uns (Dio è con noi) in parte oggi sparite (rimangono 24 disegni). Le realizzava negli uffici della rivista Documento dell’amico Federico Valli dove l’artista si nascondeva; qui, con inchiostri colorati, alcool e qualche risma di carta, testimonia la barbarie nazista e la tragedia italiana in segni accesi e tormentati che raffigurano macabri resti umani ridotti a chiazze di sangue. Dopo Corrente, Guttuso fondava Fronte Nuovo delle Arti; nell’intervista, l’artista parla del suo Neo-cubismo del dopoguerra che, dice, serviva “per dipingere meglio”. Infine accenna dell’attacco di Togliatti alla mostra di Bologna del 1948.

 

Il film di Ernesto G. Laura, Le facce buffe (1971), apre con una rara intervista a Guglielmo Guasta (pseudonimo di Guglielmo Guastaveglia, 1889-1985) per ben due volte direttore de Il travaso (1921-1926 e 1946-1962) uno dei più popolari giornali umoristici italiani nato in età giolittiana senza una precisa collocazione politica salvo una chiusura forzata, nel 1944, per ordine del Comando militare americano. Il breve documentario, racconta con ritmo serrato la storia dell’editoria umoristica del nostro paese nei difficili anni del fascismo. I primi cinquant’anni del novecento, videro all’opera importanti illustratori di fumetti, menti sarcastiche e pungenti, particolarmente attente alla comunicazione di messaggi politici accessibili attraverso la leggerezza del disegno. Non mancarono riviste coraggiose quali il Becco giallo, fondata nel 1924 da Alberto Giannini e chiusa solo due anni dopo dal regime costringendo l’autore  emigrare in Francia. Una voce off traccia la storia delle riviste mostrando vignette e interpretando le voci dei personaggi in anni in cui la satira guardava al varietà e in parte al cinema. Una rivista come il Marc’Aurelio, per esempio, fondata a Roma nel 1931 da Oberdan Cotone e Vito De Bellis mise all’opera futuri grandi cineasti e sceneggiatori come Age e Scarpelli, Steno, Cesare Zavattini, Mario Bava, Mario Camerini e infine Ettore Scola e il diciottenne Federico Fellini che esordì in veste di disegnatore satirico e ideatore di rubriche come le celebri Storielle di Federico. Nel ’44, Fellini e altri due amici del Marc’Aurelio, Carlo Ludovico Bompiani e Guglielmo Guasta Veglia, aprono a via Nazionale il Funny Face shop, negozio di caricature espresse, ad uso cartolina illustrata per gli americani in città. In questo negozio, Roberto Rossellini andò a cercare Fellini.

Paola Scremin © Associazione Culturale Silvia Dell’Orso – vietata la riproduzione