Europa fin de siècle

 

Nuova tecnologia e tradizione,

tra Liberty, Art Nouveau e Modernismo

Domenica 6 marzo 2016 | h. 16.30

 

Loie Fuller 1902

(1’), Francia, 1902, anonimo

 Liberty

(12′), Italia, 1966, di Paola Faloja, © Cineteca di Bologna

Autodidatta. Duilio Cambellotti racconta se stesso

(20’), Italia, 2005, di Lucilla Salimei (© e gentile concessione)

 Esposizione Universale 1900. Parigi

(15’), Francia, 1967, di Marc Allégret, © e gentile concessione di Les Films du Jeudi

Gaudí

(9’), Italia, 1963, di Enzo D’Ambrosio, © Cineteca di Bologna

 Barcelona, perla del Mediterraneo 1912 – 1913

(9’), Spagna, 1912-1913, anonimo / Cabot Films

 La maison de fer

(27’), Francia, 1995, di Stan Neumann (© e gentile concessione)

 

Europa fin de siècle. Nuova tecnologia e tradizione, tra Liberty, Art Nouveau e Modernismo, ma anche Jugendstil, è una giornata dedicata a uno stile internazionale che si sviluppa a fine ‘800 in diversi paesi, da cui l’origine del nome. Tra Roma, Parigi, Barcellona e Bruxelles, abbiamo scelto di sacrificare Vienna, anche se di questa stagione fu la paladina, non solo per motivi di spazio, ma per concentrare l’indagine su quei significativi momenti in cui è protagonista il nuovo sapere ingegneristico e tecnologico industriale, non tanto la cultura filosofica e storicista sottesa. La fine del positivismo e l’insorgere di ideali socialisti e anarchici, accompagnano la prima grande crisi economica di fine secolo sullo sfondo di una società in profonda trasformazione. Il Liberty ha origine nelle provincie che manifestano un bisogno di emancipazione e trova terreno fertile nella volontà e della media borghesia imprenditrice che tenta di risollevare l’industria attraverso l’impiego del progresso. Architettura del ferro e proto design, nascono e si sviluppano nell’epoca di treni, automobili, luce elettrica, fotografia, editoria e cinema, mezzi di comunicazione che influenzano e plasmano lo sguardo moderno. La giornata propone alcuni scelti filmati, per un excursus sul movimento non esaustivo, ma che restituisce il sapore complesso di una fin de siécle, fatta di immagini inedite. Non a caso, è introdotta dalla settima arte nata a Parigi grazie ai fratelli Lumiére (1895).

È il cinema a documentare la danza serpentina (Loie Fuller, 1902), enorme successo della danzatrice americana Loïe Fuller. L’immagine in movimento restituisce il senso profondo, antropologico, di una performance intimamente ispirata alla linearità floreale del Liberty, creata con le lunghe tuniche in seta mosse dal roteare delle gambe. Scritturata alle Folies Bergère, ritratta da Toulouse-Lautrec, Fuller proveniva da palcoscenici teatrali dove aveva acquisito nozioni di illuminotecnica buone per coniugare, in coreografie di forte impatto visivo, il movimento di corpo, luci, colori e suoni.

Fuller non sarà mai una professionista, come invece l’italiana, diva del muto Lyda Borelli la cui intensa espressività mimica, accuratamente studiata di pose enfatiche, evocava il Liberty e le correnti simboliste. Lo ricorda l’attore Sergio Tofano, che visse con entusiasmo quegli anni giovanili, in una rara intervista, inserita nel cortometraggio Liberty (1966). Il curioso film è stato realizzato dall’artista – anche regista, attrice, scrittrice, soggettista, scultrice italiana – Paola Faloja, in un’epoca in cui iniziava la rivalutazione critica del movimento sotterrato dalle avanguardie e rivisto negli anni Sessanta del ‘900. La realizzazione del corto inoltre, coinvolge artisti, cineasti e teatranti (Mario Ricci, Alberto Grifi, Laura Betti, Giordano Falzoni), protagonisti dei circuiti off nella Roma di meta anni ’60. Questa gioventù, prossima al ’68, ribadiva l’uccisione dei padri, come ricorda il film, fecero un gruppo di studenti di Monaco nel fondare la rivista Jugend (1896), da cui Jugendstil, per ribadire un nuovo stile di vita, ispirato alla natura. Interessante, la rappresentazione di Salomè tratta dal dramma di Oscar Wilde, che Mario Ricci, metteva allora in scena nel suo “teatro cantina” romano, un anno dopo quella del maestro ispiratore Carmelo Bene (1964). La rappresentazione è costruita con manichini ritagliati dai disegni di quello che fu l’artefice del libretto originale del dramma, l’artista inglese Aubrey Beardsley (1894). Il sodalizio artistico fra i due dandy creò un’esemplare omogeneità espressiva: le elegantissime silhouette bianco e nero di Beardsley, piatte e asimmetriche, raffinate, grottesche ed eleganti, sono il perfetto contraltare della scrittura tagliente di Wilde.

Attivo nel campo dell’illustrazione l’artista romano Duilio Cambellotti, (Autodidatta. Duilio Cambellotti racconta se stesso, 2005), incisore, pittore, scenografo, architetto, decoratore, arredatore, designer, grafico, scultore e ceramista, qui racconta se stesso nell’originale regia dei suoi diari, sottolineando una formazione che avviene all’interno dei più svariati laboratori artigianali della materia. Cambellotti incarna la una nuova figura di artista coinvolta nella progettazione di un’arte totale. La sua decorazione è sempre parte integrante dell’oggetto e si adegua alle proprietà e alle caratteristiche dei materiali utilizzati. La linearità estrema di disegni, sculture e oggetti di Cambellotti, dimostrano la profonda conoscenza delle ricerche europee di Victor Horta, Hector Guimard e Van de Velde. L’artista si accosta all’Art Nouveau grazie alle idee originali e pionieristiche di William Morris che arricchiva il proto design di finalità sociali, morali e pedagogiche. L’Italia del primo Novecento è un paese economicamente ancora arretrato; solo nel 1903, con le prime politiche sociali a tutela dei lavoratori proposte da Giolitti si attenueranno i conflitti in favore del progresso agricolo e industriale.

Diverso il caso di Parigi metropoli e fucina di avanguardie. Nel pieno corso della seconda rivoluzione industriale, Parigi saluta l’arrivo del nuovo secolo, ospitando la sua quarta Esposizione Universale del 1900 (Esposizione Universale 1900. Parigi, 1967), confermando così la sua vocazione di laboratorio ideale per espressioni dell’ingegno umano; nel settore dell’arredo, l’Esposizione vide l’apice dell’Art Nouveau, con mobili, arazzi e oggetti d’arte. Lo straordinario film di montaggio di originali spezzoni d’epoca realizzato da Marc Allégret, restituisce la vitalità di quegli anni. Dopo la Torre Eiffel (1889), altre opere in cantiere promettevano una significativa trasformazione urbana. Tra queste, la prima ligne 1, metropolitana iniziata nel 1897 e finita in tempo per l’apertura; l’architetto Hector Guimard disegnò le note strutture di entrata in ferro verniciato di verde, modellato in sinuosi motivi fitomorfi. Per l’occasione, vennero aperte la Gare de Lyon e d’Orsay, vennero eretti il Grand Palais e il Petit Palais, due architetture espositive sontuose d’ispirazione eclettica rifinite di decorazioni sfarzosissime. Il Grand Palais, malgrado l’assetto classico esterno di massicce colonne in pietra, ospita all’interno un grande padiglione con cupola di vetro, montato su ferro, ispirata al Crystal Palace di Londra (1851), motivo funzionale che permette una notevole quantità di luce a fini espositivi. Non mancano i divertimenti: la gigantesca ruota panoramica alta 100 metri, le proiezioni cinematografiche dei Lumiére su schermi enormi (16x21m) e la luce elettrica che rende la città stessa uno spettacolo folgorante. Spettacolare, una sorta di tapis roulant elettrico, lungo 3 km e mezzo (progettato per l’Esposizione di Chicago, 1893), che girava attorno a parte dell’esposizione, trasportando migliaia di persone come in una giostra.

Nei boulevards alla moda di Barcellona fine ‘800, Antoni Gaudí faceva a gara con gli architetti Puig i Cadafalch e Domènech i Montaner, nel proporre facciate giocose decorate di svariati motivi. Ma Gaudí, a confronto con altri architetti, anche europei, dimostra da subito la sua completa anarchia creativa che non farà scuola (Gaudí, 1963). Di modeste origini, carattere introverso, intuitivo, arriva al Modernismo venti anni dopo lo sviluppo europeo, ma è subito al passo con questo. Si forma negli ultimi vent’anni di un ‘800 eclettico, assorbendo molteplice sfumature linguistiche e culturali provenienti dai settori artistici più disparati. Gaudí è parte di questa complessità, incarna la figura del moderno architetto-artista, scultore e designer, versatile e geniale, che capta tutto e in maniera quasi inconscia, analizza ed elabora. Iniziava nel 1878, realizzando per un commerciante di guanti la vetrina all’Esposizione Universale di Parigi (1878), primo importante lavoro che capta l’attenzione dell’industriale Eusebi Güell y Bacigalupi, suo futuro e principale mecenate. Con i primi successi, Gaudí conduce una vita da dandy, ricercato e conteso da ricchi committenti. Con la morte di Güell (1918), si ritirerà dalla scena per concentrarsi sulla Sagrada Familia e diventare un cattolico osservante, dopo aver rappresentato con l’amico scomparso, ideali libertari e massoni. Morirà investito da un tram (1926), il suo miserevole aspetto da vagabondo inganna i soccorritori, e sarà riconosciuto il giorno successivo, quando nelle tasche trovano un bozzetto della facciata della Sagrada Familia. Gaudí sviluppa il suo linguaggio partendo dallo stile gotico francese di Viollet-Le-Duc, da cui gli asettici archi parabolici nel Collegio Teresiano e l’eloquente testamento della Sagrada Familia. Contemporaneamente, rivisita lo stile moresco sulle influenze arabe del Maghreb, nell’uso di ceramiche variopinte (Casa Vicens). Una forte simbologia alchemica, esoterica, mitologica e massonica, caratterizza tutta la sua opera, cosparsa di croci, draghi, salamandre, serpenti, funghi, maschere terrificanti; come un moderno scienziato, studia strutture radiolari ed elicoidali, ricavate dallo studio di scheletri animali e protozoi. Nelle sue architetture propone il moderno funzionalismo dell’epoca: usa il cemento armato (casa Milà) e progetta fin nei minimi dettagli gli interni, veicolando la luce e l’areazione degli ambienti. Per Güell, Gaudí progetta il parco assecondando l’idea iniziale di una città giardino, su modello inglese; dimostra così visione utopica nel condividere con Güell il pensiero del filosofo Francesco Bacone, teso a risolvere i conflitti sociali attraverso valori etici, morali e culturali. Nel Parco Güell progetta strade e viadotti, fa piantare vegetazione mediterranea, pensa all’area per il mercato coperto, la terrazza superiore con la panchina ondulata, la cappella, le mura, la casa del guardiano, la scalinata, il deposito dell’acqua, la reception e l’ingresso, ma delle 60 case previste dal progetto, in seguito al fallimento finanziario e alla morte di Güell, ne furono edificate solo due.

Frammenti filmici della Barcellona di Gaudí, sono stati rintracciati in un rarissimo documento (Barcellona, perla del mediterraneo, 1912-1913), che restituisce, oltre al parco in costruzione, il vecchio porto, i nuovi boulevard cittadini, Piazza Catalogna, i monumenti eclettici, le fontane e infine, l’Hotel anche Casinò e parco dei divertimenti, Arrabassada, situato nella collina della città. Quest’ultimo, progetto faraonico simbolo del lusso di una Barcellona in piena espansione economica, fu costruito nel 1899 e inaugurato nel 1911, con giostra di montagne russe, ampie sale da pranzo, camere d’albergo, sale giochi, oratorio pubblico e magnifici giardini con piante esotiche provenienti da tutto il mondo. Il suo declino iniziò all’epoca di questo documento, nel ’12, quando il governatore vietò il gioco, causando il fallimento della società che lo gestiva.

Con l’unificazione delle province vallone e fiamminghe (1831), Bruxelles vede uno sviluppo economico che la rende autonoma dallo stato francese. A fine ‘800, è una città alla moda con negozi, bar, viali, giardini eleganti, ma la cultura francofona, rimaneva più forte. Il Re Leopoldo II (1835-1909), che aveva conquistato colonie in Congo, era un amante dello stile esotico, severo e attento al bello. Nel clima belle époque, fa eco nel 1895, la nascita del primo Partito Operaio Belga, con appoggi di intellettuali, critici, giovani avvocati e artisti, fra cui Victor Horta (1861–1947) e van de Velde. Giovani imprenditori e ingegneri che nelle colonie fanno affari, sono i primi mecenati di questi. Horta è stato il grande precursore dell’Art Nouveau. Fra le sue opere, il palazzo costruito per il Barone Van Eetvelde è quello che appare più risolutamente moderno (Architetture. La casa di ferro, 1995). L’architetto aveva studiato a Parigi e tornato a Bruxelles, completava gli studi presso l’Accademia di Belle Arti. Horta ha rivoluzionato la concezione di abitazione privata, estendendo l’architettura esterna, alla progettazione degli spazi interni: dalle luci, agli arredi, alle pareti, fino all’oggettistica, la casa diventa opera d’arte totale e il suo realizzatore, architetto artista. L’originalità di Casa van Eetvelde (1895-1898) è data dalla sua pianta, pensata con un pozzo centrale, cuore dell’edificio, che permette la circolazione di luce e aria, coperto con una cupola di vetro e ferro: gli interni ricevono luce attraverso questa reception centrale, che collega i due blocchi, su strada e su retro. Al primo piano, questa struttura di vetro crea un giardino d’inverno coperto da un sontuoso baldacchino. Tutti i vani appartamenti, hanno un’entrata separata, per facilitare le diverse funzioni della casa, divisa fra pubblico e privato. La grande innovazione di Horta è di avere utilizzato il ferro, materiale finora riservato alla costruzione di edifici provvisori, o di capannoni industriali, a vista fin dalla facciata. Il telaio metallico permette di ottenere uno spazio libero da muri portanti, annunciando le aspirazioni dell’architettura del XX secolo.

Per tutto questo la fin de siècle è un’epoca spumeggiante ma anche ricca di contraddizioni; nel risolvere il suo rapporto contingente con l’industria, l’Art Nouveau superava il suo radicale rifiuto tipico dei decenni precedenti, ma nella sua presa di coscienza del fenomeno, rimaneva un’espressione irrazionale ed enigmatica, metafora di un’utopica speranza. Il suo carattere instabile, discontinuo, sbilanciato, denuncia proprio questa dissonanza fra arte e industria, un’industria che non riesce a venire a patti con la produzione a prezzi popolari: lo stile Liberty rimane espressione di élite, come l’arte Simbolista coeva, che rifiutando il progresso tecnico e cercava un’alternativa nelle evasioni, nei lidi inviolati e arcaici, nei viaggi verso l’inconscio.

[Paola Scremin]