Le luci dell’Est

 

Gli artisti francesi scoprono l’Oriente

Domenica 28 febbraio 2016 | h. 16.30

Il Giapponismo

(30’), Francia, 1992, di Henry Colomer, © e gentile concessione di Les Films d’Ici

Gauguin Sweet Dreams 1894

(10’), Germania, 1988, di Reiner Moritz, © e gentile concessione di Arthaus Musik

Il Marocco di Matisse. Una finestra a Tangeri

(26’), Francia, 1999, di Yves de Peretti, © Doc & Film International

Maestri della scultura moderna. I pionieri

(55’), Usa, 1978, di Michael Blackwood, © Michael Blackwood Productions Inc.

 

Le luci dell’Est. Gli artisti francesi scoprono l’Oriente è una giornata dedicata a Parigi che, dopo aver già strappato il primato artistico all’Italia, tra metà ‘800 e primi del ‘900, accoglie suggestioni extra museali provenienti da paesi lontani e che rivoluzioneranno definitivamente pittura e scultura, abbattendo il concetto di mimesi. Le mode del giapponesismo e dell’arte negra africana, sono state due suggestioni importantissime per la nascita dell’astrazione del ‘900, anche se i grandi Matisse e Picasso, a differenza di Mondrian, non si spinsero mai oltre questa soglia, la usarono semmai per ribadire l’autonomia del linguaggio artistico. Una serie di quattro documentari inediti, prodotti da broadcaster internazionali, di cura e firma prestigiosa, raccontano momenti di questa stagione, anche con repertori bianco e nero d’epoca, che ritraggono e danno voce agli artisti al lavoro.

 

Da fine ‘800 si afferma in Europa e negli Stati Uniti il Giapponismo (Il Giapponismo, 1992), un vasto fenomeno culturale che influenza gli artisti insofferenti ai vecchi dettami accademici e alle mode stantie. Le donne borghesi vestono il kimono da camera e decorano casa con suppellettili inusuali come paraventi, ventagli, vasi e ciotole per la cerimonia del tè. Già l’arte europea del ‘700 aveva reagito alle Cineserie e a fine secolo, con la spedizione napoleonica in Egitto (1798), era esploso il fenomeno dell’Orientalismo. Nei diari pieni di annotazioni e schizzi sul viaggio in Marocco di Eugéne Delacroix (1931), è ancora visibile una lettura romantica nel sovrapporre l’Oriente alle   vestigia dell’antica Roma.

Diverso il caso del Giappone che da metà ‘800, con le xilografie degli Ukiyo-e, letteralmente “immagini del mondo fluttuante”, portate in Europa dalla Compagnia delle Indie olandese, rivoluziona profondamente il concetto di mimesi, innescando ricerche sul colore, la luce e lo spazio sinora inedite. Prodotte sin dall’epoca di Edo (XVII secolo), le stampe giapponesi acquisiscono fama internazionale grazie all’apertura commerciale e politica del paese del Sol Levante, uscito da un lungo e rigido isolamento. Pratiche da trasportare, sono ammirate nelle Esposizioni Universali di Parigi e Londra, mostre promozionali per l’industria che accostavano nuovi ritrovati a prodotti esotici (provenienti dalle colonie), allo scopo di esaltare la superiorità della civiltà europea. Ma artisti, intellettuali e mercanti d’arte, collezionano avidamente le Ukiyo-e cogliendone il valore creativo oltre il dato meramente etnografico.

Apice di questa produzione si ha nelle opere di Kitagawa Utamaro (1753–1806), Katsushika Hokusai (1760–1849) e Utagawa Hiroshige (1797–1858), i tre principali artefici di inedite rese spaziali che rivoluzionarono la pittura di impressionisti come Manet, Degas, Monet, e poi Toulouse Lautrec, Van Gogh, Gauguin. Scorci e punti di vista angolati, dal basso o dall’alto e a volo d’uccello, fronde in primo piano minano la rigida prospettiva, mettendo in evidenza linee dominanti, tese, ondulate e vitali nella resa del movimento impresso alle immagini. Importanti divulgatori di oggetti orientali furono a Parigi il negozio La Porte Chinoise (1862) e La Maison Bing (1895) del mercante e collezionista Siegfried Bing, già fondatore della rivista Le Japon artistique (1888).

Queste realtà, daranno impulso all’estetica Art Nouveau, diffondendo le arti applicate presentate in spazi allestiti da artisti d’avanguardia come Van de Velde, Bonnard e Vuillard provenienti dal gruppo Nabis. Questi ultimi, nella realizzazione di oggetti d’uso comune, si possono considerare dei proto designer che per primi in Francia, colsero nella semplificazione e nel concetto di vuoto ispirato dalla Ukiyo-e, afflati dell’astrattismo.

La scuola Nabis, prendeva le mosse dalla lezione di Paul Gauguin in Bretagna, prima della partenza dell’artista per le isole oceaniche. Di ritorno dal suo primo soggiorno a Tahiti, nel 1893 Gauguin metteva mano ai ricordi con Sweet Dreams (1894), oggi all’Ermitage (Gauguin. Sweet Dreams, 1988). Qui esprime quel sentimento di terra promessa che inseguiva per mari lontani, dove tutto obbedisce a leggi cicliche naturali. In chiave simbolica, Gauguin parla di eternità, mostra donne in pose maestose, quella assonnata con l’aureola della Vergine accostata alla purezza del giglio, l’altra intenta a mordere la mela, frutto proibito. Sullo sfondo, antichi idoli e un gruppo che   danza.

Lo spazio semplificato, i colori puri e irreali maturati dal Giappone, sono elementi basilari e importanti per il nuovo concetto di decorazione che Matisse, a inizio ‘900, farà suo (Il Marocco di Matisse. Una finestra a Tangeri, 1999). L’interesse di Matisse per l’Oriente accompagna tutta la sua vita. Nel 1906, primo viaggio a Bistra in Algeria; nel ’10, visita a Monaco la mostra di arte islamica e inizia un tour che lo condurrà in Spagna, alla scoperta della cultura ispano-araba di Madrid, Cordova, Granada e Siviglia. Nel ’11-’12, si reca a Tangeri e vi ritorna l’anno seguente spinto dalle richieste dei suoi committenti russi, Shchukin e Morozov. Grazie all’Oriente, Matisse rinnoverà la pittura, rendendola espressione. Prima del suo viaggio a Tangeri, Matisse mette mano alla scultura, attratto dell’astrazione dei volumi scoperta in piccole statuette di provenienza africana. È il 1905, un anno cruciale per l’avanguardia parigina. Matisse incontra Picasso nel salotto della collezionista americana Geltrude Stein; forse fu il già affermato maestro a mettere in mano al giovane spagnolo i manufatti africani, forse fu Maurice de Vlaminck a comperarle per primo e con lui André Derain, che in seguito diverrà un attento collezionista di arte negra. La questione è controversa, ma senza quelle piccole teste stilizzate, Picasso non avrebbe dipinto Le Damoiselles d’Avignon (1907); già frequentava la vasta raccolta etnografica del Museo Trocadero di Parigi, ma è forse l’avere tra le mani l’oggetto a conferirgli una libertà espressiva inedita, una stilizzazione diversa della linearità ancora art nouveau. Queste statuette   africane infatti, gli apparivano oggetti deformanti, brutali, feticci carichi di magia e poteri oscuri.

Picasso scopriva qualcosa che gli apparteneva profondamente e che già nel suo viaggio in Spagna del 1906, con Fernande, aveva meditato nella scultura iberica pre-romana (Maestri della scultura moderna. I pionieri, 1978). La scultura negra e primitiva in generale, imperverserà a Parigi mentre Picasso, diventerà un punto di riferimento, (anche se autore di poche ma significative opere, come Testa di Fernande, 1909 e Chitarra, 1913), per artisti quali Maiollol, Lipchitz, Epstein, fino a Brancusi, qui presenti in repertori d’epoca, intervistati e ripresi nel cuore dell’avanguardia parigina del primo ‘900.

[Paola Scremin]