Vita, morte e miracoli

Riti, miti e stregonerie nei classici dell’etnografia

Domenica 13 marzo 2016 | h. 16.30

 

Parabola d’oro

(10’), Italia, 1955, di Vittorio de Seta, © Cineteca di Bologna

Il culto delle pietre

(14′), Italia, 1967, di Luigi Di Gianni, © Cineteca di Bologna

 Arte primitiva

(18′), Italia, 1974, di Giuseppe Taffarel, © e gentile concessione del Centro Sperimentale di Cinematografia – Cineteca Nazionale

 Gli stregoni

(20’), Italia, 1961, di Raffaele Andreassi, © Cineteca di Bologna

L’Om Salbadg

(11’), Italia, 1974, di Giuseppe Laganà, © Cineteca di Bologna

 Sulle ali del giaguaro

(23’), Ecuador, 2000, di Wolfgang Penn e Arno Teutsch, © e gentile concessione di Film Studio Penn

Vita, morte e miracoli. Riti, miti e stregonerie nei classici dell’etnografia, è una giornata di cinema, documentari e animazioni. Fin dalla sua nascita, la settima arte ha sempre avuto ferventi ammiratori fra etnografi e antropologi. Inizialmente, cinema etnografico e documentario erano due discipline separate per un problema sostanziale, oggetto di un lungo dibattito: come può una registrazione chimica o magnetica, di per sé oggettiva, non essere influenzata da fattori soggettivi e culturali? La scelta dei film della giornata, è stata concepita sul lavoro di quei cineasti che, negli anni Cinquanta, di concerto con la cultura antropologica specialistica, iniziarono a fare film di documentazione etnografica contaminando il dispositivo con la narrazione del cinema documentario. La divisione fra antropologi scientifici e quei giovani cineasti (Zurlini, Rondi, Ferrari, Vancini, Gandin, Taffarel, De Seta, Andreassi e tanti altri) però, rimaneva netta. Nei documentari di quest’ultimi, in parte sconosciuti per via di censura, l’interesse umano per la comprensione della vita erano mosse da un acuto senso sociale. Questa cinematografia, è stata definita “etnografia di salvataggio”, perché comunque risponde alla registrazione di modi di vita e tradizioni, in gran parte del sud d’Italia, al limite dell’estinzione.

 

Un esempio eloquente dei documentari etnografici arriva da Vittorio De Seta (1923-2011) che, subito dopo il ritorno dalla prigionia in Germania, si dedicò al cinema come aiuto e dal 1954 al ’59, auto-produsse una serie di documentari a colori, tra Sicilia, Sardegna e Calabria (Il tempo del pesce spada, Isole di fuoco, Solfatara, Contadini del mare, ecc..), per restituire il mondo com’era: la pesca, l’agricoltura, le zolfatare, la pastorizia, il rapporto con la fatica quotidiana e la natura. Parabola d’oro (1955), lo annovera fra i maestri “dell’etnografia di salvataggio”, un cinema poetico il suo, non di denuncia, ma di constatazione dell’umanità, del paesaggio, del lavoro dell’uomo oggi perduto. Contrariamente alle convenzioni del tempo, De Seta accompagnava l’immagine con il suono in presa diretta assieme a brani musicali. Questa serie di documentari, tutti di 10 minuti come allora di legge, per accostarli al film a soggetto in sala, sono subito notati dalla critica per l’assenza di commento parlato. Nobiluomo siculo – calabrese, inquieto e schivo, De Seta, aveva intrapreso studi di architettura a Roma, prima di dedicarsi al cinema, una sensibilità formale evidente nei suoi fotogrammi costruiti come “quadri”, immagini la cui teatralità è evidenziata anche dall’uso di formati panoramici (cinemascope) di forte impatto visivo. De Seta riesce così a cogliere la verità dei riti millenari del Sud d’Italia, rendendoli parabole, dove si miete, si trebbia col mulo, col vento e col sudore.

Documentari etnografici, ma anche squisitamente cinematografici quelli di  Luigi Di Gianni (1926), uno dei massimi esponenti internazionali del genere che nel corso della sua lunga carriera – iniziata a fine anni Cinquanta e non ancora interrotta -, ha girato oltre 60 documentari, fiction televisive, cortometraggi sperimentali e un lungometraggio inclassificabile (Il tempo dell’inizio, 1974). Dal 1958 con Magia lucana, Di Gianni iniziò a collaborare con l’antropologo Ernesto de Martino il quale continuò a suggerire soggetti da documentare, tenendo presente la predilezione per i casi limite del giovane regista. De Martino esercitò un profondo fascino per numerosi documentaristi che si avvicinavano al mondo magico – religioso del Meridione, nel tentativo di dare voce e dignità a tradizioni culturali non più considerate pratiche superstiziose.

L’antropologo, che incentrò i suoi studi su tarantismo, riti pagani, pellegrinaggi a santuari, lavoro nei campi, feste e tradizioni popolari, partecipò come consulente scientifico anche ai documentari di Michele Gandin, Lino Del Fra, Gianfranco Mingozzi, Mario Gallo e Libero Bizzarri, detti il gruppo demartiniano. Il culto delle pietre (1967), di sapore spiccatamente etno-antropologico, vinse il Festival dei Popoli del ’67 come Miglior Film Etnografico e Sociologico. Girato nei pressi di Raiano, in Abruzzo, dove sorge un santuario isolato, la tradizione vuole, che San Venanzio dimorando nelle grotte attorno al paese, conferisse alle pietre virtù terapeutiche. In occasione della festa annuale del santo, i devoti si addentrano nelle grotte e si strofinano sulle pietre per ottenere la guarigione da mali che li affliggono. Il rituale primitivo, in cui l’uomo entra in contatto con uno tra i più forti elementi naturali, la pietra, è restituito con assoluta maestosità di ripresa, a tratti spazialmente impossibile nei stretti cunicoli, ma capace di rendere il carattere ancestrale del rito. Pochi cineasti come lui, hanno saputo documentare in profondità alcuni degli aspetti sorprendenti, strazianti, perturbanti della nostra società, radicata nelle miserie ataviche e nelle ritualità magiche e religiose del Sud.

Di Gianni non è un osservatore passivo, perché il suo sguardo non si fa mai neutrale nei confronti dell’oggetto; ma è evidente allo stesso tempo, la ricerca antropologica che lo anima che non ha in sé nulla di estetizzante, come in De Seta, che tra l’altro ammira moltissimo. I suoi documentari sono rigorosamente bianco e nero per scelta stilistica, per esaltare la brutalità e l’orrore che guida la sua mano. Se De Seta fa l’elogio degli umili, in costruzioni scenografiche impeccabili, Di Gianni sfrutta le armi della settima arte per evidenziare la lotta dell’uomo contro la natura, il fato e la povertà. Il regista non ha pregiudizi di fronte al reale, non giudica, lascia che la denuncia sgorghi dall’evidenza delle immagini. E le sue opere risuonano di una spiccatissima personalità d’autore che attinge dalle lezioni della cultura mitteleuropea.

Il documentario quasi inedito di Giuseppe Taffarel (1922-2012), Arte primitiva (1974), racconta la storia delle antiche statuette primitive concepite per riti magici e religiosi, care agli artisti del primo ‘900 (Gauguin, Matisse, Picasso, Modigliani, Brancusi, Moore) e provenienti da Perù, Messico, Nuova Guinea, Isola di Pasqua e isole Marchesi. Regista veneto, ma anche attore e sceneggiatore, fino a pochi anni fa per nulla noto alla critica ufficiale, Taffarel inizia a fare cinema come aiuto di Francesco Pasinetti e negli anni Cinquanta del ‘900, in pieno neorealismo, collabora con il documentarista Glauco Pellegrini, grande divulgatore di un genere di documentario pedagogico inconsueto rispetto ai prodotti convenzionali di allora, sia per le brillanti doti di scrittura, sia per abilità registica.

I documentari di Taffarel riservano particolare attenzione al tema scottante della guerra – partecipò alla Resistenza – ma anche alla vita quotidiana, alle tradizioni popolari, a problematiche sociali guardate con occhio antropologico. Il commento molto asciutto ed efficace dell’amico, regista, sceneggiatore e poeta, Roberto Natale, ricorda come le forme astratte di maschere e feticci realizzati da artisti ignoti, simboleggino concetti condivisi dalla comunità. Taffarel gira il documentario due anni dopo l’inaugurazione, a Rimini, del Museo delle Arti Primitive (1972; oggi Museo Culture Extraeuropee Dinz Rialto), nato dalla raccolta del collezionista Delfino Dinz Rialto (1920-1979), che aveva messo assieme questa raccolta durante i suoi viaggi, ispirandosi al Museum of Primitive Art di New York (1957, Nelson Rockefeller). L’incipit del film gioca su un contrasto dissonante; come in un Carosello televisivo, apre sulla vita contemporanea di una Rimini riversa nelle calde spiagge della riviera e ignara del passato che la circonda. Con uno stacco netto, arrivano i titoli su una sequenza veloce di primi piani di una maschera teschio su fondo rosso (Natale, collaborò ai film horror di Mario Cava), accompagnata da musica tribale, composta da un’altra personalità raffinata del cinema di allora, il compositore Sergio Pagoni.

Ancora magia e superstizione religiosa, nel documentario di Raffaele Andreassi (1924-2008), Gli Stregoni (1961); tratto da materiali girati nel 1958, mentre il regista lavorava a un progetto incompiuto dal titolo emblematico, La nostra pelle, (scritto con Callisto Cosulich e prodotto da Carlo Ponti), il film è stato ritrovato in questi ultimi anni. Questa indagine nel mondo di maghi e chiromanti non è svolta nei paesini sperduti del meridione, ma nella grande periferia romana. In sei episodi che si susseguono con titoli riferiti a personaggi o riti compiuti, Andreassi focalizza lo sguardo nelle speranze dei protagonisti di ricevere amore, ricchezza, viaggi, in un mix di religione, superstizione e soprattutto indigenza. Il regista è attratto dell’ingenuità popolare di anime semplici e naif che a volte fan tesoro della malattia mentale. Non a caso, proprio in questi anni, Andreassi avvicinava con estrema discrezione il pittore Antonio Ligabue nel suo mondo di Guastalla. Qui, in venti minuti laconici, privi di commento – cifra stilistica tipica dell’autore – solo una didascalia in apertura, si limita ad annunciare l’oggetto dell’indagine ammettendo che il film è una “fedele rappresentazione di fatti realmente accaduti”. Andreassi dichiara così la natura di fiction, sebbene come De Seta e tanti altri, i suoi cortometraggi privilegino un taglio antropologico e culturale. Ne Gli stregoni infatti, traspare il suo occhio scettico e in minima parte, ironico sull’argomento dell’indagine.

L’animazione della favola padana dell’orco ruba bambini, L’Om Salbadg (1974), l’uomo selvaggio, nasce per mano di Giuseppe Laganà (1944-2016), cartoonist milanese recentemente scomparso, formato nella fucina creativa dei fratelli Gavioli (Gamma Film) che, proprio da queste date, diventa autore di lungometraggi con Bruno Bozzetto. La favola veniva raccontata ai bambini per metterli in guardia dal farsi avvicinare da sconosciuti, con lusinghe e false promesse.

Sulle ali del giaguaro (2000), affascinante reportage, racconta il mondo magico sciamanico della tribù Sarayaku, che vive in un piccolo angolo della regione amazzonica dell’Ecuador, nella provincia di Bobonaza dove non arriva né strada né corrente elettrica. I circa duemila abitanti si muovono a piedi o in canoa e in caso di necessità, comunicano via radio; vivono di caccia, pesca e agricoltura di sottobosco e solo una minoranza svolge attività commerciali presso un piccolo emporio che rifornisce beni provenienti dalla città.

Lo sciamanesimo, una delle forme spirituali più antiche del mondo, non ha dogmi, né edifici di culto, tutto poggia sulle basi di un’antica saggezza millenaria tramandata di generazione in generazione, in cui la salute del corpo è intimamente legata a quella psichica e spirituale. La tribù è guidata da un vecchio leader sempre circondato da bambini e donne, quest’ultime, figure molto importanti nella comunità; qui, dipingono animali sacri in ciotole di argilla con colori naturali, riproponendo così il rito antico del processo di creazione cosmica. I Sarayaku, superficialmente anche cattolici, credono intensamente negli spiriti superiori che governano selve, fiumi, lagune, montagne, un cosmo da cui lo sciamano intermediario, attinge i propri poteri. Per la tribù, uomo, animale e natura sono collegati e lo squilibrio di un elemento, influenza tutto l’ambiente in una visione intimamente ecologica.

Lo Sciamano è una persona particolare, dotata fin dalla nascita di qualità che gli permettono di comunicare con mondi superiori. Spesso è un solitario che ha sofferto per una grave malattia, esperienza attraverso la quale ha sviluppato una sensibilità elevata. La medicina principale dei Sarayaku è l’ayahuasca, miscela di erbe del posto, trattate in un decotto, i cui principi attivi sono simili alla serotonina. Da recenti studi scientifici, sono state dimostrate alcune potenziali applicazioni terapeutiche della bevanda, efficace nel trattamento di dipendenze importanti (alcolismo e droga), o di stadi depressivi, così nell’autismo e nella schizofrenia.

Il reportage è stato realizzato con il sostegno della Provincia Autonoma di Bolzano e dell’associazione culturale altoatesina Ecolnet, dedita a problematiche attuali di sostenibilità globale. I due autori e registi sono due persone molto particolari: Wolfgang Penn, prete laico, produce da anni film sulle missioni e sui progetti di sviluppo nel terzo mondo; Arno Teutsch, tedesco, sociologo e giornalista, si dedica a progetti ecologici con un’ampia visione antropologica del problema. Il film, venne girato due anni prima che i Sarayaku, vedessero calare dal cielo elicotteri carichi di soldati con mitra spianati e l’autorizzazione ad accedere al loro territorio per trivellazioni mirate alla ricerca di petrolio. A loro insaputa, una compagnia petrolifera argentina CGC (Compañía General de Combustibles), aveva ricevuto dal governo dell’Ecuador il permesso per la realizzazione di sette eliporti: l’utilizzo di esplosivi ha devastato ampie porzioni di territorio, ha distrutto fiumi sotterranei, fonti indispensabili per le necessità quotidiane della comunità, ha abbattuto alberi di grande valore ambientale e culturale, come il bosco sacro, unica area dove cresceva una varietà di piante utilizzate dai Sarayaku per la preparazione di rimedi medicali. Infine, hanno interrotto riti e cerimonie ancestrali. Le prime a denunciare l’illecito, sono state le donne che, in una ricca tradizione di resistenza popolare tutta al femminile, hanno dato avvio a una incisiva campagna di protesta contrastando questi nemici subdoli senza timore di ripercussioni. Fino al 2012, quando è intervenuto il Tribunale Internazionale per i Diritti Umani, queste donne hanno continuato a lottare contro governo e multinazionali, per riportare la pace a l’armonia dove queste meritano di regnare, in un piccolo angolo della foresta amazzonica, la loro terra. Il caso dei Sarayaku, è così divenuto in   questi anni oggetto di molti film.

[Paola Scremin]